Il mio caro amico e collega di università Paolo una volta mi
raccontò la sua prima esperienza con la frase “ti amo”.
La disse di getto, ad una ragazza a cui voleva bene, ma poi si rese
conto che aveva esagerato ed il giorno dopo, scusandosi, rettificò.
Mi disse che lui aveva immaginato che morisse sua madre o sua sorella
e che il dolore che pensava di provare non era lo stesso che se fosse
morta la sua ragazza.
Un po' macabro, ma efficace.
E senza che me lo imponessi, è una frase che mi è rimasta dentro e
mi torna in mente ogni volta che succede qualche cosa nel mondo e
penso come mi comporterei se succedesse ai miei figli.
Stavo inziando un racconto, tempo fa, parlava di un padre ormai
anziano e vedovo ce andava a riprendersi la figlia suora, rapita in
Sierra Leone, durante la guerra civile del 1999. Era una mezza via
tra la parabola del Figliol Prodigo e Commando di Swartzenegger,
improponibile, ed ho lasciato perdere.
Ma non volevo parlare della mia frustrata carriera di romanziere.
Nell'immaginare la trama pensavo a questo padre che rivedeva tutte le
tappe fondamentali della vita di sua figlia, la vocazione inaspettata
e contrastata, la solitudine della lontananza e poi la paura della
perdita, la paura del dolore, del male che potevano fare alla figlia.
Ad un certo punto, pensando ai racconti che i missionari in africa mi
facevano della guerra, dieci anni fa, ed alle storie che leggiamo ora
sul giornale, eccetera, pensavo: e se la figlia fosse stata picchiata
e violentata? E uccisa?
Ed io non sono pronto, capite?
Non è Swartzenegger che mi ha fatto cambiare idea, ma mia figlia
Maria; non puoi scrivere se non sei pronto a far vedere agli altri il
colore delle tue mutande, se non sei disposto a mettere sul mercato e
a vederla invenduta e non apprezzata una parte della tua sofferenza.
E di pensare al male di mia figlia, per quanto sia un male romanzato,
non ci riesco.
Soprattutto l'inadeguatezza ti annichilisce, il pensiero di non poter
fare nulla, di non riuscire neppure ad accettarlo.
Così, in questi giorni, con negli occhi le immagini strazianti dei
cadaveri galleggianti nel mediterraneo, mi chiedevo cosa muova le
dita delle persone che inneggiano ai missili ed alle bombe?
Sicuramente non il pensiero che possa capitare a noi o ai nostri
figli.
E non parlo di Salvini, che è anche troppo intelligente, e sfrutta
l'onda per recuperare quei due voti, senza proporre nulla di
realmente attuabile, consapevole di essere impotente quanto noi. Non
è lui il problema; il problema siamo noi, che lo ascoltiamo, che gli
diamo spazio, sia che siamo d'accordo sia che lo consideriamo un
coglione. Il problema sono tutti gli altri, quelli che riversano la
loro frustrazione e la loro paura per un futuro mai così incerto
sulle protettive righe dei social network, incitando il mare ad
inghiottire tutti, uomini, donne, bambini e le nostre angosce.
Così miopi da non capire che nemmeno se la paura si potesse vendere
e comprarci pallottole potremmo resistere; perché non riesco nemmeno
ad immaginare quanta debba essere la paura che spinge un padre o una
madre a caricare su di un barcone se stessi ed i figli e rassicurarli
che andrà tutto bene. Andrà certamente tutto bene.
Siamo sempre pronti a dire "Se capitasse ad uno dei miei figli, vedresti cosa farei", quando una ragazzina viene uccisa da un extracomunitario, o quando veniamo derubati dagli zingari. Trovo per lo meno curioso che non riusciamo mai a metterci nello stesso atteggiamento empatico, quando tocca a noi decidere chi vive e chi muore.