Le giornate sono così belle che è un
peccato stare dentro. Lo so che ci vorrebbe la pioggia... ma,
aspettando che arrivi, mi godo il sole, mi sento molto Suonatore
Jones: campi alle ortiche, ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un
rimpianto.
Dicevo, così belle che l'unico modo
possibile per “stare dentro” è fare un pochino di introspezione.
In questi giorni ho scambiato un paio
di e.mail con Barbara MFC, c'è stata la giornata sulla Sindrome di
Down. Lunedì faranno dieci anni che lavoro qui.
Dieci anni. Cazzarola, la prima volta
che mi sono reso conto di avere ricordi datati dieci anni mi sono
sentito vecchio. Ora, che i ricordi ce li ho vecchi di trent'anni, il
2002 mi sembra ieri.
Ma non è di questo che volevo parlare.
L'attenzione che in questi giorni sto
ponendo sulla disabilità, anche fuori dal mio lavoro, mi ha fatto
tornare in mente suggestioni passate. Una psicoterapeuta una volta
mia ha detto: chi lavora con la “cura delle persone” lo fa perchè
deve rispondere a qualche trauma.
Non ho ancora scoperto quale. Io ci
sono arrivato per caso, qui. Insegnavo nuoto e un giorno mi hanno
chiesto se volevo fare il volontario al mare con Federico, uno dei
ragazzi che veniva a lezione. Poi hanno scoperto che facevo
psicologia e mi hanno chiesto se volevo lavorare nel loro centro
(erano interessati al fatto che insegnavo nuoto, più che altro). Mi è
piaciuto e sono restato. Quando è scaduto il contratto ho cercato
qualcosa che somigliasse. Mi è piaciuto ancora di più e son dieci
anni.
Traumi non so. Mi ricordo di mio nonno
in carrozzina, gli ultimi anni. Era un figo, mio nonno: aveva fatto
la grande guerra, era stato in prigionia, era emigrato in Francia per
cercare lavoro subito dopo e non ne parlava mai.
Viveva il presente
“nono Bepi”. Stavo ore a fargli compagnia, a portargli le cicche,
a guardare il ciclismo.
In questi giorni, come accade ogni
tanto, ho ripensato a Stefano. È il suo nome vero. Resisto a fatica
a non mettere il cognome che pure ricordo bene. Stefano è stato pochi
giorni in classe mia, in terza media.
Stefano aveva la Sindrome di
Down. Non ne sono sicuro, a dire il vero, nessuno ce l'ha mai detto.
Stefano era seduto in ultimo banco, nella fila vicino alla mia.
Interagiva poco e, anche durante l'intervallo, si isolava. Lo
guardavo da lontano, cercando il coraggio di invitarlo a giocare a
pallone. “Secondo te è normale?” mi ha chiesto una volta la
Micky, la figa della classe (scusate la finezza, sono in terza
media). “Si, certo” ho risposto di getto.
Qualche giorno dopo non
si è presentato. Il preside ha detto che la mamma aveva deciso di
iscriverlo ad una scuola più vicino a casa.
Ancora oggi mi chiedo perchè lo
abbiano buttato in una classe di quattordicenni, così, senza nessuna
preparazione ai compagni, senza aiutarci a capire. Ancora oggi mi chiedo cosa sarebbe cambiato se l'avessi
invitato a giocare a pallone. Mi dispiace tanto Stefano, perdonami.
Ci vieni a giocare a pallone con me?