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giovedì 16 maggio 2013

Le mie Colonie (cap 2)


Mi stupisco sempre di quanto poco siano tenuti in considerazione l'olfatto ed il gusto... Come sensi, dico. Eppure, molto più della vista e dell'udito riescono a lavorare a contatto con l'anima, a risvegliarla, nei ricordi più lontani.
C'è l'odore di spazzatura che marcisce al sole, ad esempio, che io associo positivamente ad una vacanza al mare di tantissimi anni fa, la prima volta che ho visto un cassonetto. O quella particolare essenza di muffa, che c'era solo nella stanza dove nonna lavorava le verdure appena raccolte. O la carta ingiallita, che fa tornare in mente quella baracca che c'era in fondo all'orto, con quel vecchio armadio pieno zeppo di gialli mondadori. O il fieno di quando si aiutava lo zio nei campi e una volta mi sono anche incrinato la costola che quasi, ora, a sentirne l'odore, avverto una fitta al fianco.
Così mi capita con il dentifricio dei bambini. Quello caramelloso, dolciastro... impossibile, adesso, da grande. Eppure, se lavando i denti ai bambini me ne scappa sulla mano e mi lecco le dita, è come se entrassi nella macchina del tempo.
C'era questo tubetto blu e nero con disegnato Paperino.
Eravamo in colonia in montagna.

È incredibile quante cose possano cambiare da una esperienza terribile come quella del mare mettendoci solamente di mezzo un anno, un paio di centinaia di chilometri di latitudine e qualche metro slm.
Pensare che i presupposti erano gli stessi: famiglia impossibilitata a muoversi.
Ma le madri (la mia e la gemella zia), rose dai sensi di colpa per la dorotea prigionia dell'anno precedente, il secondo anno l'hanno pensata meglio: motagna. E non solo i due primogeniti: anche i secondi, all'insegna del mal comune mezzo gaudio, che eventualmente si facessero compagnia fra di loro. Il mio fratellino, oltretutto, all'epoca soprannominato “Ba'otea” (lett. Palletta, per via delle guanciotte alla Arnold), era clamorosamente fuori età, frequentando ancora l'asilo. Non so come, le gemelle terribili siano riuscite a corrompere il povero Don Luciano: ruspio e dolce, come solo gli uomini di montagna sanno essere, responsabile del campo.
Però è andato tutto bene. Benissimo anzi.
Come per il mare, più che di veri ricordi, si tratta di flash, di suggestioni. Ricordo il sorriso dagli occhi verdi della nostra animatrice, ricordo la sfida con la CIF, la colonia rivale, colpevole solamente di essere dirimpettaia, la scarpinata al Cimone, sui luoghi della Grande Guerra. Ricordo il bambino che ci intratteneva a cena soffiandosi il naso con le fette di prosciutto per poi mangiarle a mo' di involtino. Ricordo Erwin, mi pare si chiamasse così, unico superstite dell'esperienza dell'anno prima, un ragazzino biondissimo, forse albino, che stava sempre da solo e una volta si è anche perso. Ricordo che non ho mai dovuto seguire mio fratello che tanto lo avevano addottato tutti, così estroverso com'era. Ricordo il falò di fine campo: “È l'ora dell'addio, fratelli, è l'ora di partir”, la prima volta in vita mia che ho dovuto nascondere le lacrime.
Arrivederci, allor, fratelli. Arrivederci si”