mercoledì 17 giugno 2015

Quella volta che siamo andati noi da loro (1)

Dieci anni fa Silver ed io eravamo alla ricerca di un pc per scrivere a casa.
Da circa una settimana eravamo in Sierra Leone.
"Siete troppo alternativi" ci disse un parente di primo grado con un pizzico di invidia e due cucchiaini di disprezzo.
Probabilmente se si doveva pensare all'Africa per un viaggio di nozze bisognava orientarsi obbligatoriamente su Madagascar, Kenya o Zanzibar. Che il Marocco fa troppo pezzente, che ci puoi andare tutti gli anni, se vuoi. Al limite Egitto, anche se in pochissimi pensano all'Egitto come all'Africa (a me non viene automatico, ad esempio).
In realtà era un sogno che avevamo da tempo, Silver ed io, quello di fare un'esperienza di condivisione. Anzi, ci sarebbe piaciuto fare proprio un lungo periodo in missione, e pensavamo al Sud America, ma poi il nostro contatto, un sacerdote che conoscevo da ragazzo, ci propose questo piccolo paese africano, praticamente sconosciuto al mondo.
Dalla finestra dell'aereo lo scenario è simile ai film sul Vietnam: foresta, acqua e aereoporto piccolissimo: "Ci starà l'aereo su quella pista lì?"
Dentro al Boing della Brussels Airlines fa un freddo polare e quando si apre il portellone ci investe qualcosa che potrebbe ricordare il caldo, ma in realtà non è caldo: è un forno che ti si apre in faccia in contemporanea ad una secchiata d'acqua.
Già il sole sta tramontando e nell'ora di viaggio che porta dalla penisola di Lungi, dov'è situato l'aereoporto, a Freetown, quartiere Kissy, appena appena ci rendiamo conto, di dove siamo capitati.
C'è poco più di mezz'ora per cenare; è evidente che ci hanno aspettato. Alle 21 si spegne il generatore ed il buio è totale. Per andare a letto usiamo una pila. Stasera credo che la doccia non si potrà fare.
Forse abbiamo fatto una cazzata, scopriremo di aver pensato entrambi, ma non troviamo il coraggio di dircelo. Le foto che gli amici ostentano in salotto, le spiagge tropicali con le palme, probabilmente non riusciremo a portarle a casa.

La prima notte piove: vien giù il demonio.
La mattina successiva ci si sveglia presto, Father Maurice sta cercando di raddrizzare la serra che hanno costruito nell'orto dei preti. È tutto fiero del radicchio trevigiano che è riuscito a far crescere.
In effetti con questo clima non deve essere facile coltivare nulla. Solo le patate vengono con una certa facilità.
Facciamo una colazione abbondante e partiamo con lui per la città. Qualche chilometro e già capiamo meglio della sera prima: ci sono le discariche con i bambini che cercano cibo tra i rifiuti, macchine semidistrutte abbandonate in mezzo alla strada e tanta tanta tanta gente. Bambini e ragazzi, soprattutto.
Padre Maurizio è un  fiume in piena: ci racconta della guerra e della povertà praticamente senza mai interrompersi.
Ci porta in un campo profughi, una serie di baracche coperte da grandi teloni di nylon blu con il logo delle Nazioni Unite.
È pieno di bambini senza braccia o senza gambe, girano con le stampelle, a volte troppo piccole; evidentemente le hanno fornite qualche anno fa, ma i bambini, anche lì, crescono in fretta.
Sappiamo benissimo perché sono ridotti così, ce lo hanno raccontato a casa, nel corso che avevamo fatto in preparazione. Ma vederlo è diverso. La settimana a Kissy sarà tutta così: storie di morte e mutilazione, dalla mattina alla sera.
Un'intero popolo che gira mutilato, bambini che forse avevano tre o quattro anni quando un adolescente imbottito di droga gli ha mozzato un braccio o le gambe, a seconda di quale fosse il bigliettino estratto dalla stessa vittima dal suo cappello. Le case diroccate, i posti di blocco. Freetown è una città appena uscita dalla guerra e ne porta addosso ancora le cicatrici. Eppure sarebbe così bella, con le colline che si arrampicano davanti al mare, il verde intenso degli alberi che contrasta il rosso della terra.
Quante storie e quanta vita, che nonostante tutto si sforza di vincere giorno dopo giorno contro un destino di morte che la guerra ha solo reso più visibile al mondo.
Domani, sperando il tempo, mio piacerebbe scriverne ancora, pubblicare qualche foto di tutti quei bambini. Così tanti che a lasciarne uno non fotografato sembrava di fargli un torto. Al punto che poi, alla fine, l'unica foto che non abbiamo fatto nel nostro viaggio di nozze, è una foto di noi due assieme.





7 commenti:

  1. Un gran bel racconto, Gae.
    Di quelli vissuti a fondo.
    In fondo, i viaggi di nozze, i matrimoni e qualunque altra cosa, vanno vissuti proprio così.

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    1. Grazie Ford. È davvero pazzesco come mettersi a scriverne sia come rivere una parte di quelle emozioni.

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  2. Bravissimi, volevamo farlo anche noi, non come viaggio di nozze, presi qualche contatto e poi poi ripiegammo sul progetto Chernobyl, chiaramente tutta un'altra cosa. Bacione Sandra col vecchio account

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  3. Salve Gaetano. Viaggio di nozze in Africa anche io. No, non un safari in Kenya ma un mese in una missione in Togo. Meraviglioso e terribile. Io non ho foto di spiagge o palme o acque cristalline ma immagini di baobab, terra rossa, desolazione e decine e decine di occhi grandi e scuri.
    Lo rifarei mille volte. Iniziare un percorso matrimoniale così ti da una buona, solida, lucida base... Lettrice G.

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    1. Non so se valga in assoluto, ma nel nostro caso ha portato bene. FInora almeno ;)

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  4. Che bravi. Io in sardegna a svezzare il pupo, fa figo uguale?

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