venerdì 26 agosto 2016

Se muoro domani

Quando è morto Nikio (quanto ci manchi, amico mio) mi chiamò il Giornale di Vicenza per sapere qualche cosa di lui e del suo blog. Non risposi al telefono (in quel momento non potevo) e chiamarano direttamente la famiglia ma questa è un'altra storia.
Quella volta arrivarono a me perché un amico comune, impegnato in politica (e quindi sotto i riflettori dei media) aveva scritto un messaggio di cordoglio sulla sua pagina Facebook, probabilmente linkando anche uno degli ultimi post di Nicola.
Nulla di male, si dirà, ed è vero.
Infatti non volevo parlare dell'articolo e nemmeno di Nikio.
Parlavo però dei post che lasciamo su Facebook. Vi dico un segreto (come piace a dire ai miei figli ultimamente): sui social network qualcuno vi legge.
Un secondo segreto è che poi i post rimangono.
Anche se non siete impegnati in politica. Anche se non siete personaggi pubblici.
E, non ve lo auguro, domani potrebbe esserci qualcuno che cerca informazioni su di voi, come quella volta la giornalista su Nik.

Umberto Eco, qualche mese fa, disse che i social network hanno dato diritto di parola a persone (lui le chiamò "legioni di imbecilli" ma a me non piace offendere) "che prima parlavano in un bar dopo un bicchiere di vino ed ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel".
Con in più, aggiungo io, che uno non ha nemmeno la soddisfazione del bicchiere di vino e, ahimè, nemmeno il beneficio del dubbio che da sobrio potrebbe avere dei pensieri migliori. 
Il diritto, di per sé, è una cosa buona, guai a toglierlo, ma andrebbe un minimo esercitato. Nessuno di noi si sognerebbe di mettere un bambino che ha appena iniziato a camminare sulla porta di casa dicendogli, vai, il mondo è tuo.
Allo stesso modo il diritto di parola, di espressione e di comunicazione, va allenato, in modo da saperlo misurare al momento opportuno.
E non parlo di censura, parlo proprio di sicurezza per chi si esprime.
Mi torna in mente una frase che mi colpì molto: "Non fate mai nulla di cui vi vergognereste se vi trovassero morti nell'atto di farla".  Non ricordo l'autore, ma il senso è quello, comunque.
In sostanza: io non morirei sereno se sapessi di aver lasciato traccia indelebile della mia superficialità, della mia pigrizia, del mio qualunquismo, del mio razzismo; tutte cose che bene o male di tanto in tanto affiorano ma che mi auguro non contribuiscano, in futuro, a farmi ricordare come superficiale, pigro, qualunquista o razzista.
Per cui, in questi giorni di fatica, dolore e paura nazionale ed internazionale, tra sbarchi, attentati e terremoti, preferisco non andare a scrivere la prima roba che mi passa per la mente. Né pro né contro.
Cerco di informarmi, provo a capire, se sono ferrato in materia scrivo. In ogni caso non reagisco mai a chi la pensa in modo diverso. Tanto su facebook non cambiano certo idea. Se proprio ci tengo, li invito a parlare di persona. 
Così al massimo mi ricorderanno per uno che andava a correre in montagna alla mattina presto, che è comunque parziale, ma almeno non è un difetto.
Così faccio io. Non ho la pretesa che sia il modo giusto per tutti.
Voi fate quello che vi pare, sul serio, continuate a scrivere e condividere di getto, se vi fa stare meglio, condividete senza verificare la fonte, se vi manca il tempo o non avete voglia. Scrivete proclami razzisti su questioni che non conoscete bene o "mipiacciate" tutto ciò che trovate di qualunquista e superficiale incroci la vostra bacheca.
Poi però non lamentatevi se vi guardo strano



mercoledì 24 agosto 2016

Il terremoto spiegato ai miei figli

I figli crescono e non gliela racconti più.
Non riesci più a guardare un telegiornale senza che loro facciano domande. Non riesci nemmeno a scambiare una parola che sono lì, apparentemente distratti, a chiederti: "Chi?" "Chi è?" "Di chi parlate?".
E sospetto che la risposta "Uno che lavora con la mamma" tra un po' non sarà più sufficiente.
Va da sé che se si svegliano al mattino e vedono la tv aperta, cosa che non succede mai, già è un motivo di curiosità. Se poi ci sono immagini di macerie e le nostre facce sono preoccupate, figurati.
Però io il terremoto non lo so spiegare proprio.
L'ho provato poco, nel 2012, quella volta che è tremata l'Emilia e sono ballati i vetri anche qui. Che poi per giorni avevo un tuffo al cuore quando qualcuno faceva tremare il tavolo con le gambe.
E quel tuffo al cuore o l'hai provato o non l'hai provato. E, immagino, sia lo stesso con le crepe nei muri, i calcinacci che cadono e il non sapere se i tuoi cari, nella casa di fianco sono sotto o sopra il cumulo di macerie.
Quindi che gli spieghi?
Non so.
Magari gli racconto la solita vecchia storia, quella di nonna nel 1976, con mia mamma incinta di mio fratello che mi prese in braccio, avvolto in una coperta, e mi portò giù in strada. E là c'erano tutti.
Me l'ha raccontata così tante volte che quasi la ricordavo sul serio anche io.
E stamattina, quando ho letto la notizia, mi sono rivisto in braccio a mia madre, avvolto in una coperta fatta a mano, con mia nonna con il foulard nero in testa, ad aspettare che passasse il peggio, protagonista di un ricordo d'altri.
Quella storia non mi ha mai trasmesso paura. Chissà, magari funziona anche con loro.