venerdì 19 giugno 2015

Donation day, donate dai!

Ragazzi,
non scherziamo!
Oggi, 19 giugno 2015, è il Donation Day della Fondazione Banca degli Occhi Veneto.
Chi passa da ste parti da un po' di tempo, di sicuro sa di cosa sto parlando. È una onlus con la quale collaboriamo come squadra in vista della Venice Marathon 2015.
In sostanza La Folgorante corre per loro, in ricordo dell'amico Nikio, che non c'è più da un po', ma ci manca sempre tanto.
E si raccoglie fondi, per la ricerca sulle malattie oculari ed il trapianto di cornea. Ed in qualche modo queste quattro o cinque ore di sfacchinata da Stra a Riva Sette Martiri prendono un senso un po' più profondo.

Detto questo, cos'è il Donation Day?
Praticamente una gara dove chi raccoglie di più vince. In un solo giorno.
"Piace vincere facile" direte voi, visto che siete una squadra e gli altri corrono da soli.
Può essere. Ma in realtà, a volte, el musso con do paroni more de fame dice mia madre, per cui per vincere tutti devono fare la loro parte.
Poi si può vincere di misura, invece noi vogliamo stravincere.
Quindi, carta di credito in mano e cliccate qui
Bastano anche pochi euri, mica che dovete impegnarvi la casa.
Sono certo che posso contare su di voi... fate vedere di che pasta siete fatti.

giovedì 18 giugno 2015

Quella volta che siamo andati noi da loro (2)

L'idea di Don Siro, padre giuseppino, regista delle missioni in Sierra Leone dall'Italia (per problemi di salute), non era quella di farci lavorare in Africa, ma quella di farci innamorare.
E proprio come con le scaramucce d'amore ci raccontò di tutte le crudeltà e delle fatiche di quei popoli. Del clima inclemente che è buono due mesi all'anno e poi o è un caldo torrido o è pioggia tropicale. Delle malattie: la malaria, in primis, diffusissima e facilissima da beccare, ma almeno non ti uccide, mentre ce ne sono tante altre che lo fanno senza problemi. Per non parlare dei parassiti che ti si incuneano sotto pelle, o degli animali velenosi che ti trovi a girare per casa.
Eppure ti capita di essere lì, in camera, a guardare fuori dalle zanzariere e a dire: "io qui ci rimarrei". E ancora adesso, a dieci anni di distanza, il solo pensiero di non esserci più tornato, di aver fatto così poco per loro, diffonde un senso di colpa nel cuore, come fosse il veleno del green mamba.

La seconda settimana l'abbiamo passata a Lunsar, nell'entroterra. Freetown è una metropoli africana. Lunsar è un villaggio in mezzo alla foresta. Nata negli anni sessanta/settanta, attorno alle miniere di rame della zona, la missione doveva servire a scolarizzare ed assistere le persone che, in cerca di lavoro, venivano ad abitare qui. Poi le miniere sono state chiuse e la piccola cittadina è rimasta.
Lunsar è l'Africa dei villaggi che si raggiungono solo con la Jeep, dopo ore di cervicali che urlano ad ogni buca. Lunsar è l'Africa della gente che gira svestita. "Se le persone girano nude significa che sono molto povere, la cultura in questo caso non c'entra" ci disse Father Mario, il prete cappellone che ci scorrazzava in giro.

"Quando tornerete non troverete molta gente che sarà contenta di ascoltare quello che volete raccontare", così ci salutarono i padri, prima di reimbarcarci su quel rottame a forma di traghetto che ci avrebbe riportato a Lungi.
Invece un po' ci hanno ascoltato, a dire il vero.
Forse il mondo, quassù, non è egoista come lo vedono da laggiù.
Me lo auguro anche in questi giorni, dove sarebbe importante recuperare umanità.

Ho provato a pensare a didascalie, a commenti. Ma il tempo stringe, e le foto, probabilmente, parlano da sole.





























la prima parte del racconto è qui

mercoledì 17 giugno 2015

Quella volta che siamo andati noi da loro (1)

Dieci anni fa Silver ed io eravamo alla ricerca di un pc per scrivere a casa.
Da circa una settimana eravamo in Sierra Leone.
"Siete troppo alternativi" ci disse un parente di primo grado con un pizzico di invidia e due cucchiaini di disprezzo.
Probabilmente se si doveva pensare all'Africa per un viaggio di nozze bisognava orientarsi obbligatoriamente su Madagascar, Kenya o Zanzibar. Che il Marocco fa troppo pezzente, che ci puoi andare tutti gli anni, se vuoi. Al limite Egitto, anche se in pochissimi pensano all'Egitto come all'Africa (a me non viene automatico, ad esempio).
In realtà era un sogno che avevamo da tempo, Silver ed io, quello di fare un'esperienza di condivisione. Anzi, ci sarebbe piaciuto fare proprio un lungo periodo in missione, e pensavamo al Sud America, ma poi il nostro contatto, un sacerdote che conoscevo da ragazzo, ci propose questo piccolo paese africano, praticamente sconosciuto al mondo.
Dalla finestra dell'aereo lo scenario è simile ai film sul Vietnam: foresta, acqua e aereoporto piccolissimo: "Ci starà l'aereo su quella pista lì?"
Dentro al Boing della Brussels Airlines fa un freddo polare e quando si apre il portellone ci investe qualcosa che potrebbe ricordare il caldo, ma in realtà non è caldo: è un forno che ti si apre in faccia in contemporanea ad una secchiata d'acqua.
Già il sole sta tramontando e nell'ora di viaggio che porta dalla penisola di Lungi, dov'è situato l'aereoporto, a Freetown, quartiere Kissy, appena appena ci rendiamo conto, di dove siamo capitati.
C'è poco più di mezz'ora per cenare; è evidente che ci hanno aspettato. Alle 21 si spegne il generatore ed il buio è totale. Per andare a letto usiamo una pila. Stasera credo che la doccia non si potrà fare.
Forse abbiamo fatto una cazzata, scopriremo di aver pensato entrambi, ma non troviamo il coraggio di dircelo. Le foto che gli amici ostentano in salotto, le spiagge tropicali con le palme, probabilmente non riusciremo a portarle a casa.

La prima notte piove: vien giù il demonio.
La mattina successiva ci si sveglia presto, Father Maurice sta cercando di raddrizzare la serra che hanno costruito nell'orto dei preti. È tutto fiero del radicchio trevigiano che è riuscito a far crescere.
In effetti con questo clima non deve essere facile coltivare nulla. Solo le patate vengono con una certa facilità.
Facciamo una colazione abbondante e partiamo con lui per la città. Qualche chilometro e già capiamo meglio della sera prima: ci sono le discariche con i bambini che cercano cibo tra i rifiuti, macchine semidistrutte abbandonate in mezzo alla strada e tanta tanta tanta gente. Bambini e ragazzi, soprattutto.
Padre Maurizio è un  fiume in piena: ci racconta della guerra e della povertà praticamente senza mai interrompersi.
Ci porta in un campo profughi, una serie di baracche coperte da grandi teloni di nylon blu con il logo delle Nazioni Unite.
È pieno di bambini senza braccia o senza gambe, girano con le stampelle, a volte troppo piccole; evidentemente le hanno fornite qualche anno fa, ma i bambini, anche lì, crescono in fretta.
Sappiamo benissimo perché sono ridotti così, ce lo hanno raccontato a casa, nel corso che avevamo fatto in preparazione. Ma vederlo è diverso. La settimana a Kissy sarà tutta così: storie di morte e mutilazione, dalla mattina alla sera.
Un'intero popolo che gira mutilato, bambini che forse avevano tre o quattro anni quando un adolescente imbottito di droga gli ha mozzato un braccio o le gambe, a seconda di quale fosse il bigliettino estratto dalla stessa vittima dal suo cappello. Le case diroccate, i posti di blocco. Freetown è una città appena uscita dalla guerra e ne porta addosso ancora le cicatrici. Eppure sarebbe così bella, con le colline che si arrampicano davanti al mare, il verde intenso degli alberi che contrasta il rosso della terra.
Quante storie e quanta vita, che nonostante tutto si sforza di vincere giorno dopo giorno contro un destino di morte che la guerra ha solo reso più visibile al mondo.
Domani, sperando il tempo, mio piacerebbe scriverne ancora, pubblicare qualche foto di tutti quei bambini. Così tanti che a lasciarne uno non fotografato sembrava di fargli un torto. Al punto che poi, alla fine, l'unica foto che non abbiamo fatto nel nostro viaggio di nozze, è una foto di noi due assieme.





venerdì 12 giugno 2015

Ieri, dieci anni fa

Ieri, dieci anni fa.
Ieri perché avrei dovuto scriverlo ieri.
Dieci anni fa non c'era il sole di oggi: faceva freschino, alla mattina. Alla notte avevo dormito abbastanza bene, come il mio solito. Verso le dieci mi chiamò Silver, leggermente in ansia e anche un po' incazzata perché i suoi la stavano tirando scema che se quelli del catering avessero preparato fuori e avesse piovuto, sarebbe stato un disastro.
Lei, chiaramente, doveva solo fare il gesto di chiamarmi, per tranquillizzare i suoi. Abbiamo condiviso che: ok che quelli del catering sono una cooperativa sociale, ma dovrebbero arrivarci da soli a capire che se piove non è il caso di apparecchiare fuori.
Dei momenti che portano alle due del pomeriggio ricordo gran poco: abbiamo preparato  delle tartine con la mia famiglia, per accogliere gli ospiti: i cugini che non vedi mai, i vecchi zii.
Con Silver eravamo d'accordo di vederci in chiesa, un'ora prima della messa, assieme al coro. Perché per noi i matrimoni sono stati tutti così: a provare le canzoni e ad aspettare. Che tutte quelle moine, della finta sposa e la gente che ti aspetta in piazza e la sposa in ritardo, non ci sono mai piaciute tanto. Ci siamo salutati sulla porta e ricordo di aver pensato che era davvero bellissima.
Gli invitati arrivarono alla spicciolata, prima, più massicciamente, poi. Ricordo distintamente il "Ma voi che cazzo ci fate già qui?" del mio amico Zambo.
Ricordo che noi eravamo anche pronti ma mancavano i miei, in ritardo, as usual, e mia madre doveva portarmi all'altare.
Ricordo la messa che è iniziata e che abbiamo riso come dei deficienti per tutto il tempo perché fin dalla prima frase del libretto il prete ha trovato un refuso con il nome sbagliato degli sposi. Avevo impaginato tutto facendo copia incolla da quello di mio fratello che si era sposato qualche mese prima e non avevo controllato bene. Per fortuna il sacerdote riuscì a dribblare ogni insidia e a non risposare nuovamente Sara e Silvio.
Poi avevamo deciso di cantare una canzone noi e la mia comare Debora mi prendeva in giro e diceva che sembravamo quelli di "Quattro matrimoni e un funerale" che cantavano "Stand by your man".
Un po' aveva ragione, ma chissene.
Poi la macchina che si è rotta in autostrada, andando al ristorante, e tutti a pensare che il nostro autostop vestiti da sposi fosse uno scherzo e allora clacson e tanti saluti da parte dei camion (quando ti sposi non porti con te il cellulare).
L'arrivo al ricevimento con il giubbino ad alta visibilità, in ritardo cosmico rispetto agli altri invitati, fu un colpo di genio, per sdrammatizzare. (Anche passare al casello in cinque di cui una vestita da sposa dentro ad una fiat idea dell'unica anima pia che si fermò non fu male).
E poi basta, nebbia fino a sera, "Sweet Home Alabama" cantata a squarciagola con gli amici che suonavano e la cameriera timida che verso una certa ora mi disse: noi dovremmo anche andare. Di liquido non c'era più nulla in giro e l'amico che ci doveva portare a casa era ubriaco.
Ma in qualche modo mi sa che ci siamo riusciti, o non sarei qui, dieci anni dopo, a raccontarlo.

venerdì 5 giugno 2015

Lasciare

Nella mia sensazione di essere un padre in perenne difetto verso i figli, soprattutto rispetto al tempo che passo con loro, realizzo solo ora che non ho mai passato una notte fuori casa in cui non fosse presente almeno un altro membro della famiglia.
Del tipo: notti a casa senza figli? Svariate, grazie ai nonni che se li portano al mare ogni anno.
Notti passate fuori casa con i figli: un po' meno, ma comunque un numero importante.
Notti passate fuori casa senza figli: 1. Con la moglie, tre anni fa.

Per farla breve domani vado via per lavoro per quattro giorni e per la prima volta sono io ad uscire di casa, da solo.
Una sorta di adolescenza da genitore.
Non sto qui a raccontarvi di ansie e patimenti, che sarebbero falsi come i soldi del Monopoli. Non ho nessuna ansia legata al fatto che la famiglia è senza di me. Silver se la caverà benissimo e sono anche un po' contento che provi lei la bella sensazione di farcela. Perché si vedono inevitabilmente i bimbi con occhio diverso, in queste occasioni qui. Faranno anche incazzare, qualche volta, ma è evidente che il rapporto ne guadagna, e molto.
Però mi fa un certo effetto, dico la verità.
Quindi pausa: pausa dal lavoro ordinario, pausa dalla routine classica del week end (per quanto possa essere routinaria la mia famiglia), pausa da Harry Potter, pausa dalla corsa (non è detto, le scarpe me le porto, che non si sa mai).

Ma no investiamo troppo, in fondo sono solo 4 giorni.

mercoledì 3 giugno 2015

Esperto petrolium

I miei figli sono dei geni, che ve lo dico a fare. E inizio a dubitare che sia perché assomigliano al papà (che sono io, vi venisse mai la voglia di fare battute strane).
La settimana scorsa, o quella prima (diomio quanto poco scrivo!), vi raccontavo del nuovissimo trip per Harry Potter.
Bene, sta durando ancora. D'altro canto come potrebbe essere diversamente? Se pensiamo che la visione di un film singolo, come The Avengers o Frozen, potrebbe durare con esclusiva quasi assoluta per un mese buono, con una serie di otto film ci siamo garantiti la programmazione fino alla fine del 2020.
È pazzesco quanto siano condizionati da quello che vedono, comunque: i mantelli da supereroi sono diventati delle divise da Quiddich (perdono errore di scrittura, devo ancora leggere i libri), hanno tirato fuori dal garage del nonno tre vecchissime scope di vimini e le frecce di Occhio di Falco sono diventate le bacchette di sambuto.
Forti.
Ed è tutto un "Esperto Petrolio", "Stupeficium (con sputazzo incorporato)", "Alaomora", "Espeliamus" e così via.
Pietro ha addirittura inventato il suo personalissimo incantesimo, da geniaccio qual'è (d'altra parte si è autonominato Hatty Potter, visto che Jack ha i capelli biondo rossiccie e lui invece c'ha pure gli occhi azzurri).
Era davanti alla zuppa di verdura, bollente e, bacchetta in mano (era un pennarello della Carioca), ha esclamato: "Fredo Patocum" 
Se non siete veneti probabilmente ignorate il significato della parola patoco. Che non è neppure facile da spiegare: può voler dire marcio, ma anche fungere da semplice rafforzativo. In questo caso Fredo patoco significa "Tanto freddo, freddo fastidioso".
Ma al di là del dialetto veneto, mi dicevo che potrebbero esserci parecchi incantesimi che potremmo usare, ad esserne davvero capaci, proprio come il misterioso Principe Mezzosangue, che aveva scritto i suoi personalissimi incantesimi ai margini del libro di pozioni.
- Il "Subitinbagnum" per le sere in cui proprio non ne vogliono sapere di andare a lavarsi e andare a letto
- Il "Laborallevia" per quelle giornate che proprio non viene mai sera.
- L' "infrigum latticinum" per quelle volte che proprio ti dimentichi di andare a fare la spesa.
E chissà quanti altri.
E visto che si parlava di mezzo sangue, mi piacerebbe lanciare il più potente incantesimo il "NegRomBiancum livella", perché i bimbi continuino a giocare con Aminata, all'asilo, e perché le ruspe siano un giochetto da muoverci la sabbia tutti assieme, dove il rischio più grande per tutti, è trovarci al massimo qualche merda di cane.

Due noticine a margine: Riparte Occhio al Nikio, cliccate e capite di che si tratta, e se avete la manina calda sulla carta di credito, saprete di averli spesi per una buona causa.

Uno dei blog che leggo sempre con gran gusto, nonostante il poco tempo, è quello di Cannibal Kid. Lui ha tutta una serie di candidature per i MIB, tra cui ha messo anche me. Finché non ci internano entrambi, io posso solo ringraziarlo virtualmente. Poi, se vi va di votare, seguite i suoi consigli.