mercoledì 30 marzo 2016

Gianmaria Testa (1958 - 2016)

Una delle tante idee che avrei e che poi non concretizzo mai per dare un minimo di continuità al blog si chiama "Una goccia di splendore", una rubrica dedicata a cantanti poco conosciuti alla massa, che non passano mai in radio e che compaiono poco anche in tv.
Uno di questi sarebbe senz'altro stato Gianmaria Testa di Cuneo, ferroviere e musicista che ho avuto modo di conoscere dal vivo in un concerto pagato ancora in lire, grazie all'amica Alessandra.
In barba a tutte le mie convinzioni rock di quel tempo, quando schifavo qualsiasi cosa non portasse sul palco almeno un Marshall valvolare e un distorsore vintage, Gianmaria Testa ed il suo "socio" Piermario Giovannone, con due chitarre ed una voce roca, riuscirono a portarmi, attraverso un viaggio di parole e suoni, a provare emozioni che, lo dico senza retoriche di circostanza, non ho provato neppure con musicisti internazionali ben più blasonati e celebrati.
Il tutto condito da una raffinatezza un po' sofisticatamente e autoironicamente snob che a me è sempre piaciuta tanto. 

Gianmaria Testa è partito oggi per la sua ultima corsa.
Buon viaggio e perdonami se per salutarti non trovo nulla di più originale di una tua canzone, forse la mia preferita.

venerdì 25 marzo 2016

La passione

Sarà che sto invecchiando di brutto, ma a me la ritualità inizia a piacermi.
Prendete la religione: a me la religione piace un pochino rituale.
Silver dice che spesso è vuota ed inutile, la ritualità.
Si, dico io, ma magari se qualcuno ce la spiegasse.
Il simbolo è sempre servito a far capire. Poi è diventato fine a sé stesso, per trasformarsi in "abbiamo sempre fatto così".
E lì è la fine.
Perché l'"Abbiamo sempre fatto così" porta immediatamente dopo alla ribellione: "Adesso mi son stufato e cambiamo" e magari non si parte dal primo punto, cioè da qualcosa che abbia un senso (perché nessuno ha mai raccontato il senso originale) ma da qualche cosa che sia solo vuoto rito.

Poco male, non volevo parlare di riti.
Siamo nel triduo pasquale. A me il triduo pasquale riporta all'infanzia, inevitabilmente. Io, mio fratello e mio cugino facevamo i chierichetti in parrocchia. Il triduo era un tour de force.
Giovedì, il primo giorno di vacanza, non si dormiva. Esattamente come i due giorni sucessivi.
Sveglia alle 7, colazione veloce e via in chiesa per le prove.
Il vecchio don Luigi era uno che altro che ritualità: la celebrazione della Pasqua era una coreografia. Si provava tutta la messa almeno due volte. Ogni anno perfettamente uguale a quello precedente, ma non importava. Si provava comunque.
Uscite insieme candele alla mano, tu ti fermi qui, tu ti muovi a destra, cinque passi, guardarsi con la coda dell'occhio, non girate la testa, inchino insime e via, si sale sull'altare.
La messa veniva liofilizzata tipo:
Prima lettura (veniva solo detto così, non veniva letta), seduti, rendiamo grazie a dio, in piedi, alleluia, vangelo, omelia, seduti, fine omelia, in piedi. E noi via a continuare a sederci e ad alzarci che manco che ad una lezione di GAG.
Eppure non è mai stato un peso. Soprattutto quando eravamo più grandicelli, alle medie. Anzi, era una specie di festa tra eletti: a raccontarsi barzellette sconce in sagrestia, a bere di nascosto il vin santo, ad annusare l'incenso manco fosse marijuana.
Un lavoro facile, per Dio, nel mio caso, mantenere una fede che si basa su ricordi belli, di amici e spensieratezza.
In quel ricordo dolce, trovo il senso di questa ritualità e capisco, finalmente, i vecchi che si lamentano del cambiamento.

lunedì 21 marzo 2016

Basta mai più

La cosa più bella di chiudere una Ultramaratona è trovare i figli in piazza che ti aspettano. È bello perché succede quasi solo lì.
Quando tornoa a casa la sera a malapena mi salutano. A volte addirittura si arrabbiano se, nella loro mente, quel giorno doveva tornare prima la mamma.
Invece dopo 50 o 60 km ti corrono incontro e ti abbracciano. È un po' come se ti dicessero: te lo devi sudare un bacino, papà.

Qui il post con il racconto dell'Ultrabericus 2016, faticosa in modo assurdo e capace di farmi dire per gran parte della gara: mai più Ultramaratone. Di solito succede solo negli ultimi 10 km e finisce al traguardo. Qui è durata fino a stamattina.
Forse sto invecchiando.
Per cui andate a leggere, che magari poi non corro più.
Insomma, appena smetto di camminare come un papero storpio decido. 
Statemi bene e fate i bravi. 

venerdì 18 marzo 2016

Sovrumani silenzi e profondissima quiete

Sono un privilegiato. 
Domani ci sarà Ultrabericus 2016, la mia terza, quarta, boh... forse addirittura quinta ultra.
Dovrei fare mente locale ma sono troppo occupato a pensare se Ultratrail è maschile o femminile.
Chi lo sa?
Dicevo che sono un privilegiato. Domani è la festa del papà ed io posso mettere scarpe da corsa e vestirmi da supereroe ed andare a scorrazzare con gli amici sui colli per una decina di ore scarse (spero).
Il primo privilegio è poterlo fare, essere ancora qui a cavalcare la tigre, tutto sommato più in forma di quando avevo 25 anni. Non è difficile, sapete, soprattutto se a 25 anni eravate già obesi.
Ma in generale, leggere il post dell'anno scorso, mi fa un certo effetto. All'ultimo commento scappa ancora il magone. Pensare che con Paolino si doveva correre assieme già quella e, si era detto, anche questa.
Ma basta tristezza, sennò che privilegiati siamo?
I miei mi aspetteranno all'arrivo. Sperando di arrivare, che non è mica scontato che visto che siamo arrivati l'anno scorso arriveremo di sicuro anche quest'anno. Già mi carica il pensiero.
Mi carica anche l'idea che Silver si organizzi per esserci e facciano battute: "Correte piano e lasciateci il bancomat". Che in effetti l'arrivo in centro città ha un suo perché.
E anche se retto il ruolo della moglie che non capisce queste cose per tutto l'inverno, lei è tornata con un paio di accessori tecnici comprati apposta per la gara. È il suo modo di correre con me, e mi va anche bene, perché, se davvero corresse, probabilmente non riuscirei a starle dietro.
Oggi il giorno prima e l'aria sembra più elettrica del solito. E non è solo perché c'è il sole ed è asciutto.
Se ci sarà il sole di oggi sarà uno spettacolo. Sarà correre verso un orizzonte nascosto dalle colline, come superare la siepe dell'Ermo Colle per Leopardi. Gli avrebbe fatto bene anche al povero Giacomino, forse, smetterla di sedere e mirare, saltare la siepe e andare in cerca di un nuovo orizzonte.
Di sicuro nessuno si ricorderebbe di lui e sarebbe un peccato, ma credo che si sarebbe divertito decisamente di più.
Così, in questa (poca) immensità s'annega il pensier mio in questa vigilia di ultratrail. A me che si ricordino di me non frega una sega. Domani il naufragar mi sarà dolce, anche se saranno colline.

martedì 8 marzo 2016

I believe in miracle! Where you're from?

Se c'è una cosa che mi fa incazzare è la retorica dell'8 marzo. 
Non pensavo che la festa della donna fosse ancora una festa così sentita, e per certi aspetti sono contento che lo sia, ma la retorica proprio non la sopporto.
Oggi il color mimosa impazza: sulle bacheche di facebook, nei gruppi whatsapp, nelle vetrine dei negozi.
Gattino-mimosa, che ha preso il posto di gattino-cuoricino, che a sua volta era subentrato al natalizio gattino-babbonatalino.
Sempre accompagnato da scritta in sovraimpressione con frase di persona famosa o attribuita a persona famosa.
Quando la persona famosa non fosse disponibile si può sempre attribuirla in modo assolutamente arbitrario ai Peanuts, a Mafalda o ai Puffi. Come vi piace meglio.
Oltretutto fino a ieri, molti di quelli che oggi mimosano gareggiavano all'insulto sessista contro la ministro Boschi, l'astronauta Cristoforetti, la ragazza violentata sul giornale o anche semplicemente con la mamma che non risuciva a parcheggiare all'asilo.


Si, insomma, mi stride un po' che oggi uno mi dica che la donna è stata creata da Dio, che sia stata baciata da un angelo prima di scendere sulla terra, che senza di lei il mondo crollerebbe, quando fino a ieri si dava fiato al reportorio più becero dell'universo mondo.

Però perché giudicarli affrettatamente, magari il problema è che semplicemente non hanno trovato in internet delle mimose con le loro frasi preferite.
Quindi eccomi qui, pronto a colmare il loro vuoto.
Divertitevi, sessisti del cazzo





lunedì 7 marzo 2016

Just a castaway, a Island lost at sea

Sabato ho compiuto 42 anni. Fa effetto, vero?
I ragazzi di 25 anni mi danno del lei. Se non avete ancora provato, non potete capire. 
Per il resto sono passati abbastanza invano. Molte delle cose che dovevo imparare non le ho imparate. Altre nemmeno mi ci sono messo.
Non imparato a frenare la lingua, nonostante il mio cervello cerchi di avvertirmi, come il formicolio di spiderman.
Non ho imparato ad ascoltare: ogni volta che qualcuno mi racconta, ho sempre da rilanciare con qualche cosa che è successo anche a me. Una volta un'amico mi ha detto di non sopportare più suo padre per questo motivo. Il cielo non voglia che un giorno uno dei miei figli lo dica di me.
Nonostante questo non ho imparato a stare male, a reggere la tensione, cedendo sempre e facendo passare per bontà quello che in realtà è debolezza, facendo pesare sugli altri una cattiveria che non era loro.
Non ho imparato a non giudicare, perché ogni volta che mi vanto di non farlo, in realtà sto giudicando chi lo fa e, sotto sotto, anche l'azione che gli altri giudicano (solo che non ho nemmeno le palle di ammetterlo)
Non ho imparato a stare solo, che non è l'indipendenza o l'autonomia, ma è il vuoto, e la solitudine nella fatica. E quindi che cazzo parlo, che sto nella bambagia?
Non ho imparato a non avere paura, la rimuovo e basta. Venerdì si era a pregare per il papà di un amico ed io mi trovavo ad aver paura, ancora.
"Il tempo stringe la borsa". Ed io il giorno dopo compivo 42 anni e Paolo e Nik non li compiranno mai e trovavo tutto così pesante e faticoso ed ingiusto.
Ed io quasi non crederei più neppure in Dio, se non fosse che servono le palle anche per non credere ed io un po' ci spero anche nel Paradiso, che come idea non mi dispiace neppure e comunque, oramai, è come un vecchio amico con cui ci si scrive solo su facebook o su whatsapp: ci vogliamo un gran bene anche se ogni tanto non ci capiamo.
Ma lui lo ha capito da tempo che sono un po' casso, e tanto lo sa che torno sempre per primo io a chiedere scusa.
Poi, piano piano, passa anche a lui, come capita a Silver e ai pochi veri amici che ho.

martedì 1 marzo 2016

Lettera a Carnefice

Caro Carnefice, 
È passata qualche settimana dalla morte di Giulio Regeni eppure il pensiero mi turba ancora.
Di solito non mi succede; di solito in qualche giorno la notizia viene metabolizzata. Stavolta no, continuano a venirmi in mente quegli occhi buoni, nelle poche foto che girano, che potrebbero essere i miei di quindici anni fa o quelli dei miei figli fra vent'anni o poco più.
Non li hai visti così anche tu?
Volutamente ho cambiato canale, ho girato gli occhi, ho cercato di non leggere ogni volta che mi sono trovato davanti la ricostruzione della tortura, della violenza, così gratuita, così drammaticamente scontata nel portare solo alla morte.
Ed io non ci dormo di notte; io, al caldo del mio piumone, non riesco a fare a meno di pensare al suo papà e alla sua mamma, che magari hanno letto le stesse cose e sentono sulla loro carne viva la stessa scossa elettrica, la stessa lama di coltello, il legno della stessa mazza che picchia.
Non hai figli, tu, Carnefice?
Non hai genitori?
Un fratellino?
Quale odio ti porti dentro? Cos'hai visto nella tua, immagino finora breve vita, per non avere pietà di un ragazzo.
Non lo pensavi, mentre picchiavi, che se una persona la puoi uccidere tu, in fondo non può essere questa grande minaccia?
Di cosa avevi paura?
E anche se ne avevi, era Giulio il colpevole?
Oppure lo era James Foley, quando lo hai ucciso? O Vik Arrigoni quando lo hai strangolato? 
E sono settimane, sai Carnefice, che mi sforzo di non pensare da padre, di non lasciarmi trasportare dall'odio e dalla voglia di vendetta, che penso a quanto sarebbe invece importante venirti a cercare e capire l'origine di quel male.
Che da quel male forse potremmo capire tutto il male del mondo.
Ma tu, Carnefice, in qualcuno di quegli occhi, sei riuscito a vedere un po' di bene?
O hai solo riso e sghignazzato? Come quei bimbi che sadicamente uccidono le lucertole, consapevoli che non stanno rischiando nulla, che non capiscono che la forza vera non è la loro, non in quel momento. Eh?
Dimmi almeno questo, Carnefice, che non avevi capito, che ti sei accorto che hai sbagliato. Dimmi che anche tu non ci dormi di notte.
Dimmi che non lo farai mai ai miei figli, Carnefice, che mi sforzo di educarli al bene e alla giustizia, non lo ha fatto tuo padre, con te?
Dimmi qualcosa; qualcosa di tuo, però. A telecamere spente.