venerdì 25 settembre 2015

Credimi pensavo davvero di aver superato il momento difficile

Aveva ragione Max Gazzè, a volte il tempo peggiora le cose.
Non sempre, però.

La settimana scorsa raccontavo ai miei figli alcune storie di migranti: alcune tristi, per quanto si cerchi di edulcorarle per i bambini. Domenica poi li hanno visti, e mi hanno chiesto: "Sono quelli i ragazzi arrivati con la barca? Quelli con le cuffie?"
Capite? Le cuffie, non la pelle nera.
Allo stesso modo parlano del loro compagno arabo: è piccolino, riccio. Non cercano scorciatoie i bambini e se si accorgono che tu vorresti una conferma rassicurante, certa, tipo "è il mio compagno con la pelle nera" te lo dicono con disprezzo, quasi già adolescenziale, come mia nipote direbbe a sua nonna che è ovvio che si può andare in internet con un telefono cellulare.

A volte invece il tempo non serve a nulla. Ieri aprivo dopo tanto tempo blogger e c'è l'elenco dei blog seguiti. Ricompare "Nikio cosa mi combini". Mi viene una fitta, proprio in centro al petto, come se il cuore avesse saltato un colpo ed avesse urtato il successivo contro lo sterno. Ed un'irrazionale speranza, frustrata prima ancora di nascere.
Clicco. No, niente, è un blog che parla, in inglese, di arredamento.
Mi sale il senso d'ingiustizia: non è possibile! Il blog di Nikio occupato abusivamente. Voglio scrivere al signor blogspot, per esigere rispetto.... come faccio dove trovo l'indirizzo.
Va beh, ma a lui che gli frega? In fondo lo spazio era libero. Potrebbero almeno cambiare il nome.
Magari, mio sono detto, scrivo alla ragazza che gestisce il blog. Ma poi perché? Perché capisca la storia di quello spazio? Cosa sono io? Nicole Kidman in The Others?
Niente, alla fine non ho fatto niente.
Il tempo fa questo, le storie passano e le case avranno nuovi proprietari.
Ora devo solo trovare la forza di cliccare "non seguire più Nikio". Almeno su blogger dovrebbe essere facile.

mercoledì 23 settembre 2015

On the road again

Poche notizie di me?

non cantate vittoria,

questa settimana sono qui, a parlare di corsa

e qui a parlare di differenze e di generazioni.

Andate e fate come se foste a casa vostra: la birra è in frigo e le patatine in dispensa




mercoledì 16 settembre 2015

Sarà difficile diventar grande

Oh, il prossimo che mi manda via whatsapp la canzone di Elisa sul video Telethon lo saccagno di botte, ok?
Uno perché quella canzone mi piace e non voglio che mi vada in disgrazia.
Due perché, cazzo! È il primo giorno di scuola, mica che si sposano e vanno stare fuori casa. Che poi, fosse anche, è comunque meglio del funerale.
Silver mi ha detto che sono insensibile, ma non è vero.
Si, fa un po' effetto, vederla con il grembiulino aspettare pazientamente la chiamata per la sua classe (che poi è stata quasi subito e probabilmente era più preoccupata per i nomi che venivano dopo).
Fa effetto anche pensare che da stasera (ma molto più probabilmente da domani) ci sarà da controllare i compiti e stupirsi ogni giorno di più dei progressi.
Non mi lascia indifferente neppure la consapevolezza che ormai è grande, che nel giro di pochi anni, meno di quanti sono passati da quando è nata, ci chiederà di lasciarla in fondo alla strada, come è successo stamattina ad una mamma che conosco; età del figlio: prima media.

Però dai, non è bello vederli così?
Non è un po' una conferma, una volta ogni tanto, che stiamo anche facendo un buon lavoro?
E poi, ancora: ma questo benedetto video che sta girando, di cosa parla? Di un bambino con la distrofia che affronta la sua vita.
Da un lato dico: che bello, in fondo siamo tutti uguali come genitori, ci portiamo dietro tutti le stesse fatiche, le stesse ansie.
Dall'altro torno a benedire la mia fortuna e ad essere contento che mia figlia oggi era in prima fila, sorridente e non si è mai voltata a cercarmi con lo sguardo. Se non per la mamma di quel bambino in carrozzina, almeno per Maria, dico, le mie ansie e i miei magoni, li tengo per me.
E voi continuate pure a pensare che sono insensibile. 

martedì 15 settembre 2015

Salta sulla fetta e andiamo via

Sabato c'è stato Occhio al Nikio.
Così' tanto diversa dallo scorso anno, così tanto uguale.
È così difficile trovare le parole per descriverla, quasi che la catarsi della lingua scritta non funzioni più o forse, semplicemente, non serva.
Avevamo fatto una scelta, però: chi organizza, gli amici, non avrebbero suonato. Formalmente perché serviva manodopera per cucinare e servire, in realtà perché c'è bisogno di stare uniti, certe volte.
Eppure non si è pianto mai. Fino ad oggi, almeno, quando ho letto questo post qui scritto da Ari, che di Nikio era la moglie.
Non ho pianto ma qualcosa ha lavorato dentro in questi quattro giorni.
La prima è l'orgoglio di fare parte di un grande gruppo. Lo scorso anno siamo partiti con la Folgorante che pareva quasi una stronzata detta così, tra il Lungo il Corto ed il Pacioccone. Me ne assumo la responsabilità: la stronzata l'ho detta io.
Ora però la squadra andrebbe avanti anche se io decidessi di non correre più. E continuerebbero pure in tanti: nove Folgoranti alla Venice Marathon e dieci per la 10 km.
Poi dietro, a sfornare panini, c'erano quasi tutti i miei amici: quelli di sempre, con i quali sono cresciuto, e quelli che si sono aggiunti poi, regalati dalla vita e che, se non ci fossimo di mezzo Silver ed io, non si conoscerebbero. Io sono arrivato tardi, la sera, per problemi di lavoro e li ho trovati lì e mi è sembrato un miracolo.
A metà serata ho addirittura imparato la sacra arte della preparazione della carne per il "panin onto". In sostanza si è trattato di correre dal macellaio per via del fatto che stava finendo tutto il cibo (ma quanta gente è venuta?), saltare di là del banco perché il suddetto macellaio aveva la moglie a casa malata, sbudellare una cinquantina di salsicce, mettere la cartina sotto, polpettina, foglio sopra, pitùn pitùn (vorrebbe essere il suono della pressetta per gli hamburger) per cinquanta volte e di corsa alla festa di nuovo. Ovviamente assieme a chi aveva buttato giù dal letto il casolino per via del pane.
E poi, alla fine, mentre smontavamo il palco, c'erano i figli di tutti noi, in mezzo al campetto da basket, in cerchio a chiacchierare a bassa voce che mancavano due bottiglie di birra e qualcuno che fumasse e parevano quasi già adolescenti, già desiderosi di una lora vita, di un loro spazio senza di noi. Già grandi.
Ecco, invece di immalinconirmi a pensare che il tempo passa, io mi sono sorpreso a pensare che è proprio bello così: avere la fortuna di vederli diventare grandi, di litigare perché faranno sempre più tardi, berranno, fumeranno e ci manderanno a fanculo.
Una fortuna sfacciata.
Questa consapevolezza è l'ultimo regalo del Nikio.


Fate un salto a salutare e a donare da Occhio al Nikio, tra poco metteremo dentro il ricavato della serata ed il portale imploderà

venerdì 11 settembre 2015

Il topo di campagna ed il topo di città

Di topi di città, di per sé, ne ho visti più di uno. In particolare un bel esemplare moro ci ha attraversato la strada davanti al palazzaccio andando ad infilarsi dietro ad una bancarella del lungo Tevere.
Si, siamo stati a Roma e non vorrei parlare di topi, che pare che si voglia dir male della capitale ma non è vero. Anche perché ho visto topi ben più grandi in campagna.
E anche perché Roma ci piace un sacco.
Ma sto invecchiando, non c'è che dire.
Me ne accorgo quando scendo dal treno in una grande stazione.
Stessa cosa a Termini: i bimbi da tenere per mano, i tabelloni luminosi, la marea di gente, il mendicante che ti vede da lontano, il campo visivo che sfuoca dal collo in giù.
Dove sono i miei prati, la mia collina, la mia erba da tagliare?
Mi sto imborghesendo: l'erba tagliata mi mette pace, mi illude di poter mettere a posto il mondo; ma è solo il mio mondo, il mio piccolo giardino.
Poi niente: scendi a Termini, binario 9 e le certezze della mia erba vanno a farsi benedire.
Uno sguardo fuori: sembra di stare a Nairobi, il bar di fronte è frequentato solo da africani. Reprimo l'istinto di preoccuparmi, di fare la rapida associazione Immigrato, stazione, delinquenza tanto cara ai nostri giornali locali. Penso che se fossi andato a Nairobi troverei il quadretto affascinante e probabilmente loro in me vedrebbero come un muzungu con probabili idee di conquista e sfruttamento.
Tempo un giorno e torno a capire come funzionano gli autobus, la metro, le strade e piano piano conosco e capisco. O ri-capisco, mica era la prima volta che ci andavo.
Però era la prima volta con i bimbi e non è la stessa cosa anche se loro, come sempre, sono più bravi di come me li aspetto.
L'ultimo giorno quasi mi dipiace dover tornare al mio giardino, al mio mondo chiuso, a questo italiano che si sente ovunque.
Poi ho tagliato l'erba.