venerdì 31 gennaio 2014

Quando cucina lui #liberericette


Niente, mi spiace, mia moglie ha tirato pacco!

È abbastanza internazionale “tirare il pacco”, come espressione, vero?

In realtà, vi raccontavo, che mi sono preso tardi, poi io non è che sia proprio un asso della programmazione dei post... al massimo carico la sera che appaia al mattino, senza neppure stare lì a contare bene le ore...


Ma questo non c'entra, Silver ha un problema di lavoro ed io mi trovo da solo ad organizzare la ricetta. Però mangiare bisogna e quindi, quando vedi girare il tuo pizzaiolo di fiducia in Lexus, ti viene il dubbio che forse è il caso di iniziare ad imparare qualche fondamentale della cucina di sussistenza.

A dire il vero, da figlio di madre lavoratrice, dopo la morte di nonna (avevo 14 anni, per completezza di informazione), se alla sera volevo mangiare mi dovevo necessariamente organizzare. Il motto di mamma, infatti, che lavorava sotto casa, era: “Co xè pronto ciama” (quando è pronto chiama).

I primi tempi te la cavi con il prosciutto ed altri insaccati. Poi evolvi e passi ai surgelati: sofficini, bastoncini, panatine. Tutto rigorosamente fritto.

A 20 anni andai a donare il sangue e trovarono le transaminasi in zona Uefa (all'epoca in Coppa dei campioni ci andava solo la prima in classifica). Alla domanda “Mangi spesso fritti o insaccati?” capii che era il momento di andare a scoprire il mondo.

Ma non perdiamoci d'animo, ok... c'è una cena da preparare.

Se non siete di quelli che fanno la spesa programmando il menù settimanale, non stoccate viveri in congelatore per tutto l'inverno e non vi piace o non avete tempo andare “in botega” tutti i giorni, premuratevi almeno di avere sempre in casa quelle due o tre cose da sfoderare alla bisogna: i cubetti di pancetta, un cartone di panna da cucina, la passata di pomodoro, la pasta. A proposito ho esagerato con l'ordine della pasta del gruppo d'acquisto ed ora ne abbiamo in ogni dove, sembra la casa di Fantozzi quando la pina si innamora del panettiere.

Fatevi guidare dall regola d'oro “Queo che non sòfega ingrassa”



Ricetta:

Oggi vi propongo una cazzatina che probabilmente farà rizzare i peli agli amici di Roma e dintorni ma che qui è poco conosciuta nonostante sia facile da fare ed i bimbi la adorino: la pasta “Cacio e pepe”.

Quindi, amici romani, turatevi il naso, mentre gli altri che non la conoscono aprano ben le orecchie.

Intanto, se avete bimbetti sui due/tre anni, vi consiglio vivamente di farglielo pronunciare: sono impagabilmente pucciosi quando dicono “caciepeppe”

Ingredienti:

Pecorino romano: un bel po' (per 5 persone io riempio mezza scodella da colazione di pecorino grattuggiato). Non so se si possa fare anche con il pecorino tradizionale... se provate io declino ogni responsabilità. 
Comunque il pecorino romano lo si trova anche già grattuggiato nei supermercati vicentini.  

Pepe: poco o tanto, dipende se vi piace piccante. “Che beca” diciamo noi.

Pasta: quanta ne magnate? Fate voi. Che tipo di pasta? Chennesò, siamo in emergenza, non stiamo a fare i preziosi, ok?

Fate bollire l'acqua e buttate la pasta. Mentre cuoce, con un cucchiaio, prendete dell'acqua di cottura e versatela sul pecorino. Piano, un cucchiao alla volta, e mescolate. Deve diventare una specie di crema.

Quando ha una consistenza morbida (che poi che cazzo vorrà dire?) mettete un po' di pepe. Io poi il pepe lo metto pure in tavola perché a Pee e a me piacciono i gusti forti, agli altri tre è già troppo piccante nominarglielo.

Buon appetito e, come diceva un mio amico “Anche oggi ci è passata la paura di morire senza mangiare.

Le storie sono per chi le ascolta, le ricette per chi le mangia. Questa ricetta la regalo a chi legge. Non è di mia proprietà, è solo parte della mia quotidianità: per questo la lascio liberamente andare per il web”

Perché bisognava aderire a #liberericette anche se non ho nulla di memorabile da consigliare? Perché è collegata ad un'iniziativa benefica in favore del Centro Astalli

Sono le dosi che mi fregano 



Se non ne avete a sufficienza di leggermi oggi mi trovate anche qui

mercoledì 29 gennaio 2014

Attese


Avrete notato che ultimamente sono un po' sotto tono qui sul blog, no?
È perché ho poco tempo e poi un paio di cose carine che ho scritto le ho regalate in giro... vi farò sapere dove, tenete d'occhio facebook e twitter (si, ammetto che scriverla così fa molto “merda”).
Non so perché, mi è venuto così: scrivere e spedire. Forse che ciò che si scrive, un po' come i figli, una volta che se ne intuisce l'indole, non vanno trattenuti in modo possessivo ma liberati.
Pensare che lo scorso anno mi dispiaceva un po' non poter pubblicare qui le cose che avevo promesso di scrivere per altri.
Un po', forse, inzio anche a prendere un po' di sicurezza nelle mie idee e nel mio modo di scrivere. Non è sempre facile: io a scuola ero il somaro e, volenti o nolenti, queste cose ti rimangono dentro.
Ma scrivere non è la mia vendetta, sia chiaro.
Scrivere è il mio hobby, è la mia sigaretta dopo pranzo o dopo cena.

Avrete notato anche che il titolo del post non centra un cassettino (in realtà ora centra perché ho cambiato il titolo ma devo lasciare lo stesso questa frase sennò mi sballa il seguito e non ho tempo di cambiarlo)
È perché volevo collegarlo all'iniziativa di venerdì prossimo “Liberericette” alla quale ho partecipato anche lo scorso anno con ilguest post di Silver.
Quest'anno non le ho ancora chiesto se vuole scrivere lei la ricetta e temo di essermi preso tardi. Infatti mi pare di ricordare di aver cominciato circa un mese prima l'altra volta per riuscire a convincerla e, poi, fino all'ultimo ha cercato di ritirarsi.
È fatta così, non crede mai di essere all'altezza; anche se una cosa la fa da anni, si rifiuta di andare a braccio, se deve divulgarla. Si documenta, perfino.
Poi io temo sempre che si noti quanto è più brava di me, perché sono davvero poche le cose in cui riesco meglio. Una è suonare la chitarra, ma solo perché lei non si applica. L'altra è attaccare i bottoni ai vestiti. Qui credo che proprio non ci riesca, anche se si applica.
Insomma, io ho anche detto che partecipo a “Libere ricette” ma se non convinco Silver a scrivere mi sa che mi tocca postare qualcosa sulla cottura dell'hamburger, la pasta al dente definitiva o “come riscaldare la minestra di ieri”.
Se la torta dello scorso anno vi è piaciuta e volete convincere “la Rossa” a cimentarsi anche quest'anno, avete due giorni per convincerla.

lunedì 27 gennaio 2014

Storia, memoria


Ci sono talmente tanti film belli sulla Shoah che ormai anche in tv devono iniziare a programmarli già dalla sera prima del giorno della memoria per farne vedere almeno un paio.
Che poi trovavo abbastanza assurdo che li programmassero solo in questo periodo anche se tutto questo ha il vantaggio che ti fanno ricordare che è quasi il giorno della memoria, no?
Comunque ieri sera ho detto a Silver che mi piacerebbe fare un viaggio a visitare Auschwitz o Dachau. Anche se faccio sempre più fatica a sistemarmi davanti allo schermo della tv e guardare film che ne parlano. Non so se dipenda dalla paternità, ma non ce la faccio più. Mi partono di quelle angosce incredibili.
E mi chiedo come fosse possibile essere genitori durante la guerra, i rastrellamenti, le deportazioni? Come si può rassicurare un figlio piccolo se si è gelati dalla paura? E non riesco a non pensare ad un padre che abbraccia un figlio in un treno che viaggia nella neve verson nord e tu sai che morirete entrambi ma lui ti chiede di rassicurarlo come quando si sveglia di notte dopo un incubo.
Ed in mezzo a quell'atrocità lui capirà che tu non sei onnipotente, non ci arriverà piano piano, a scoprirlo quando sarà grande, quando scoprirà, al tuo primo errore, la tua fragilità.

Mi chiedevo però come si possa spiegare la storia, anche questa così dura, ai bambini piccoli, fino a che, ieri sera, inconsapevoli, i bambini si sono piazzati davanti allo stereo con le loro chitarre a seguire dei brani di folk ebraico sui quali stiamo lavorando.
Si divertivano un sacco.
Ed ho pensato che i partigiani sanno già cosa sono perché c'era un disco che girava in macchina. 
Forse attraverso la musica si potrà arrivare anche a spiegare la Shoah. 
 

giovedì 23 gennaio 2014

R.I.P. Carlo


Per la prima volta nella mia vita, giuro, ho capito cosa passa nella testa di chi, quando muore qualcuno, cambia la propria immagine del profilo su facebook.

Ieri sera ho saputo che è morto Carlo Mazzacurati, regista padovano, forse il mio cineasta preferito per quello che riguarda la produzione italiana degli ultimi 20 anni.

Che poi, preferito. Le preferenze dipendono dallo stato d'animo, non dal regista. Ma io non ho mai trovato nulla nella produzione di Mazzacurati che mi facesse cambiare canale.

Credo dipendesse da quella capacità di raccontare il Veneto, con le sue miserie e i suoi tic, senza però tralasciare anche le cose belle, quelle che ci fanno comunque rimanere qui, a guardare le montagne ed anche il mare, nonostante le zone industriali infinite e i vari Porti Marghera disseminati qua e là. 
Il fascino cadente della laguna a Pellestrina, il mesto piattume del Polesine, la Vicenza che c'è sempre meno de "Il prete bello".  
E poi i personaggi: gli emarginati perché perdenti, perché incapaci di essere all'altezza di un mondo che cambia senza aspettare nessuno: il timido muratore di "Vesna va veloce", il Cristo obeso de "La Passione", i tristi antieroi Willy e Alain Delon de "La lingua del Santo".  

Un amore per la sua terra che lo aveva spinto a tornarci, lasciando Roma e le sue opportunità. 

Mi sono sempre chiesto se i suoi lavori fossero amati anche altrove.

Oggi non ha importanza.

Chiaramente non ho messo la sua foto sul profilo; sono pigro e comunque non credo che lui avrebbe gradito. Riposa in pace. 
Spero che lassù qualcuno apprezzi il tuo amaro senso dell'umorismo e sennò porta pazienza, qualcuno arriverà. 
 

Quando uscirò di prigione andrò da Patrizia, ho un sacco di cose da dirle, se mi vorrà ascoltare. Sennò pazienza, le dirò a qualcun altra. È così bello il mondo se lo guardi negli occhi di una donna”.

martedì 21 gennaio 2014

Lazzaro '14


In quel tempo Gesù andò a trovare il suo amico Lazzaro e lo trovò morto. Affranto dalla notizia si recò al sepolcro dove trovò una folla radunata. C'erano tutti: le sorelle Maria e Marta, i loro mariti, i figli, i cugini di primo grado con i figli e le mogli, gli amici del calcetto, i colleghi di lavoro, i compagni della band.
Nessuno piangeva, tutti avevano preso atto che Lazzaro era morto e, anche se non era vecchio, pareva che fosse tutto molto normale.
C'era qualcosa che non andava, in tutto questo, Gesù, pure onniscente, non se lo riusciva a spiegare.
Era come se tutti aspettassero il miracolo, come se credessero davvero che Lazzaro potesse tornare in vita e cercavano un momento per stare con il povero Lazzaro portando ciò che pensavano amasse di più: la band aveva collegato i microfoni e aveva messo una cassa dentro al sepolcro e stavano suonando un bluesaccio minore molto coinvolgente tra gli sbuffi e i malumori degli astanti che non vedevano l'ora che si togliessero dai coglioni. La squadra di calcetto, in pantaloncini e calzettoni lunghi, improvvisò un “torello” lì, davanti al pietrone della tomba tirandoci anche qualche sonora pallonata per far sentire a Lazzaro che era ancora uno di loro. I figli, ed i figli dei figli ed i figli dei loro figli (se non scrivi questa frase non ti accreditano la fonte biblica) si intrufolavano nel sepolcro passando davanti alla fila, stavano dentro parecchio tempo, senza luce l'iphone non fa ste gran foto, e poi la connessione non prendeva bene e per mettere la foto sul profilo facebook ci vuole una vita.
Le mogli degli amici, che in vita lo avevano sempre criticato perché organizzava un sacco di serate portando via di casa quei debosciati dei loro compagni, gli carezzavano le mani e sussurravano parole dolci all'orecchio.
I colleghi di lavoro lo aggiornavano su quanto era successo in officina, e sul capo che era ogni giorno più stronzo e, adesso che non poteva prendersela più con Lazzaro, se la prendeva di più con gli altri. Lo dicevano piano perché il capo era lì che aspettava di abbracciare il defunto.
Alla fine tutti se ne andarono. Gesù rimase solo sul sagrato davanti al sepolcro. “Bei tempi, quando i miracoli li chiedevano a me. Ora tutti lo aspettano e nessuno lo chiede, pare solo che sperino che avvenga mentre sono nei paragi”. Ma poi Gesù disse che pensare male è un peccato e non sta bene che il figlio di Dio lo faccia.
Così entrò dall'amico Lazzaro e non lo tocco, in vita era una persona molto riservata e non gli piaceva essere baciato e toccato. “Senti amico mio, non credo molleranno l'osso facilmente, io quasi quasi ti resuscito, se vuoi”. E così fece. E se ne andò prima di capire le intenzioni dell'amico (che il libero arbitrio non si discute mica).
Capì solo il giorno dopo, leggendo un giornale che citava la bacheca Facebook di un cugino di quarto grado: “Lazzaro è risorto, noi ci abbiamo sempre creduto”.


mercoledì 15 gennaio 2014

Breaking Bed


Ciclicamente ritorna il problema del sonno.

In particolare del mio sonno, visto che a non dormire siamo Silver ed io.
In pratica, ad intervalli che forse sono regolari ma non c'ho voglia di controllare, i nostri figli decidono che è più bello dormire nel lettone di mamma e papà.
La cosa vi potrà sembrare comune ma io calo la briscola: i nostri figli sono bravissimi ad addormentarsi da soli nel loro letto; alle 20,30/20,45 si va a nanna, si ascolta la fiaba, si dorme. Possono chiamarci un paio di volte a testa (rigorosamente dopo che ci siamo seduti sul divano) perché hanno sete, caldo, assicurarsi che non li abbiamo abbandonati o sapere perché l'elicottero vola con l'elica e l'aereo con le ali o perché il cavallo bianco del capitano dei buoni di Mulan è bianco (giuro).
Insomma, dalle 9 noi possiamo anche illuderci di aver fatto giornata e di poter rilassarci un paio d'ore sul divano a leggere, anestetizzarci con lo zapping o, se la Luna è dietro a Marte e Venere fa l'occhiolino a Giove anche... beh... vabbeh
Senonché ad una certa ora vengono a trovarci non gli spettri dei Natali passati presenti e futuri ma i piccoli gnomi delle notti presenti. E vengono seguendo random uno degli schemi di sotto riportati: 
 
Stanivslaskij: entrano in scena senza turbarla mimetizzandosi con cuscino e coperte. Diventando, cuscino e coperte. Funziona se applicato da singola persona. Il re di questa tecnica è Pee che ti accorgi al mattino che è di fianco e, in alternativa, è capace di farti credere di essere il fratello.

Moliere: altrimenti detta “Malato immaginario”. La specialista è Marichan: ti si para di fianco toccandoti in modo leggero ma insistente il braccio fino a che dai segni di vita. Dopo di che, con una faccia ed una voce alla Shirley Temple degli anni (e riccioli) d'oro, finge un malessere di qualche genere localizzato fra timpano e buco del sedere.

Capo Nord: ovvero “Il sole a mezzanotte”. Siccome hanno capito che se dormono tutta la notte in camera loro noi siamo più felici, decidono che la notte finisce quando vengono nel nostro letto. Il tutto rinforzato da frasi tipo “Hai visto mami, che bravo, ho dormito tutta la notte nel mio letto, vengo qui che è quasi mattina”. Lo dicono con tal enfasi e convinzione che quasi ci crederesti, salvo buttare l'occhio alla sveglia e prendere atto che sono le due. Il più esperto in questo è il buon Jack, che si distingue anche per il fatto di riuscire a farti un trattamento shiatsu total body mentre è perfettamente addormentato.
Ma la mia tecnica preferita è:
Ispanico! Ispanico Nota anche come “Al mio segnale scatenate l'inferno” che consiste nel applicare tutte e tre le tecniche, a distanza ravvicinata, più volte in una notte, anche all'unisono, fino alla resa dei poveri genitori che, quando si son fatte le quattro del mattino, si adattano a dormine sul bordo del materasso, con un braccio che fa da cuscino ad un figlio, l'altro appoggiato al pavimento, una chiappa scoperta e la lesione dei tendini della spalla.

Mi tentava l'idea di alzarmi alle 5 per andare a correre.
Un amico mi ha consigliato una App motivazionale per non rinunciare mai all'allenamento. Ma i miei migliori motivatori sono e rimangono i miei figli.

lunedì 13 gennaio 2014

Paragulp!


Ieri sera ci si guardava “Il Cammino per Santiago” di Emilio Estevez.
Carino. Direi un'ottima idea di fondo ed una buona partenza, anche se poi si perde un po' da metà in poi diventando un po' troppo scontato e “ammerigano”.
Per noi c'era il valore aggiunto del ricordo, che è sempre un bel ricordare.
Comunque non volevo parlare di ricordi, di film o di Cammini di Santiago.
Volevo parlare di Emilio Estevez che è il figlio del protagonista, Martin Sheen. Io una volta pensavo che fosse il figlio illegittimo avuto con una comparsa messicana di una qualche film girato nei '60. E pensavo che odiasse il padre ed il belloccio fratellastro Charlie.
Invece ti vado a scoprire che l'amato Capitano Willard in realtà si chiama Ramon Estevez e che il suo primogenito ha semplicemente deciso di usare il vero cognome per non dover continuamente confrontarsi o venire associato al percorso artistico del padre che non sarà Nicholson o Hopkins ma è comunque piuttosto noto.
Così lui appare in qualche filmettino qua e là e poi decide di dedicarsi alla regia. Di lui ricordavo Bobby che mi era piaciuto proprio tanto.
Ma arrivato qui mi accorgo che non voglio parlare neppure di Estevez perché in realtà tornavo a riflettere sui figli paraculi.
Io nel mio piccolo sono stato figlio paraculo.
Un secolo fa, a diciassette anni, inziai a fare il bagnino nella piscina dove mio padre faceva la manutenzione. Poi diventai anche istruttore.
Una volta un collega anziano mi disse: “ah, tu sei un paraculo, allora? Nessun problema, finché continui a lavorare bene”.
Cioè, in sostanza: probabilmente Emilio Estevez se fosse stato il figlio di un macellaio di Brookling o di un insegnante di lettere di Boston, non solo non si sarebbe sognato, ma magari gli sarebbero proprio mancate anche le basi economiche per sfondare nel cinema.
Invece era già bello inserito, grazie al padre... così che si è lanciato. Ed è pure passabile come artista.
Sei figlio di medici e farai il medico? Ok, purché tu sia un buon medico ed a patto che tu provi ad essere il miglior medico che io conosca.
Guai, invece, ai figli protetti contro ogni evidenza di inadeguatezza, che vivono su fama e meriti dei genitori.
Di una cosa sono certo: sarà più facile se decideranno di fare un lavoro diverso dal mio.

venerdì 10 gennaio 2014

Nè di Venere nè di Marte


Ieri sera si fantasticava con Silver sulla reazione che potremmo avere se diventassimo improvvisamente ricchi; ipotesi peraltro ben più che remota, ma è un esercizio che vale la pena fare per capire cosa siamo realmente motivati a fare nella vita.
Così pensavo che se mi trovassi improvvisamente nella condizione di non dover lavorare per garantire lo stretto necessario: comprare il pane, mantenere due auto, una vespa, il contratto per il wifi, l'ammortamento del iPhone, le rate del Bimby, lo skipass a Cortina, le ferie in Grecia, l'abbonamento in palestra, il cineforum, la babysitter per quando vado in palestra ed al cineforum, il contratto con Sky, Premium on demand e non rinunciare ad un paio di gratta e vinci al sabato.
Dai, sto esagerando.
Ad esempio non gioco al gratta e vinci, il che diminuisce sensibilmente la possibilità di avere la botta di chiulo di cui sopra.
Comunque, dicevo, la frase classica che si dice in questi casi è che sarebbe bello poter lavorare come passatempo, senza doverlo fare per problemi economici.
Un paio di grancazzi! (mi si perdoni il francesismo)
Anche se amo tantissimo il mio lavoro credo che se potessi vivere senza lavorare non lavorerei e tanti saluti.
Cosa farei?
Potrei dedicarmi al blogging compulsivo: un articolo al giorno... non saprei che minchia scrivere ma potrei scopiazzare qua e la... ve lo immaginate l'articolo di cucina (nei blog professional c'è sempre l'articolo di cucina): Dieci consigli per ingrassare senza sensi di colpa in pochi mesi.
Potrei correre tutti i giorni (che è già un consiglio per ingrassare senza sensi di colpa).
Potrei impegnarmi in associazioni politiche e paramilitari clandestine (essere casalingo è sicuramente una copertura migliore che lavorare in cooperativa).
Potrei dedicarmi seriamente al romanzo che ho in testa da mesi e diventare finalmente lo scrittore depresso ed in crisi creativa che ho sempre sognato di diventare. Il che presupporrebbe che almeno un romanzo di successo riuscissi a scriverlo; su questa voce mi sa che ci devo lavorare su.
Potrei fare il mammo a tempo pieno: vado a prendere i figli a scuola, li lavo, li vesto, gli faccio fare i compiti ed i lavoretti di scuola, vado a farmi il cappuccino con le altre mamme casalinghe, mi trombo il postino.

Sapete che vi dico? Nessuna di queste ipotesi mi convince più di tanto, mi sa che dopo qualche tempo finirei per tornarmene al lavoro, chiedendo di farlo anche gratis, che tanto io sono ricco.
Allora ho un'idea migliore: continuo a non giocare al gratta e vinci e continuo a lavorare facendomi pagare. Qualche volta sarà dura arrivare a venerdì; qualche altra arriverà prima di quanto ci si aspettasse. Forse, in fondo, sono già ricco così.

martedì 7 gennaio 2014

But till then tramps like us baby we were born to run



Un anno fa eravamo a cena dai miei e mio fratello, rinunciando al panettone, mi invitava ufficialmente ad accompagnarlo alla marcia del paese che si sarebbe svolta il giorno seguente. 20 km.
Ciccio, non faccio attività fisica da due anni esatti, da quando cioè sono nati i gemelli ed ho passato l'ultima ora della mia vita trascorsa in palestra a scambiarmi impressioni genitoriali con l'istruttrice”.
Chettefrega, andiamo pianino, vedrai che ce la fai”.
Si, dai, ti farebbe anche tanto bene” ha rinforzato Silver, strappandomi di mano il panettone.

Va ben. Chi mi presta un paio di scarpe?
Tornato a casa frugai nei cassetti più reconditi delle stanze più nascoste delle torri più alte dei castelli più lontani alla ricerca di un minimo di abbigliamento.
Il mattino successivo, dopo un'arrembante partenza, giunti all'altezza della chiesa del paese, circa duecento metri dopo, dichiaravo la mia resa: incoraggiavo mio fratello ad abbandonarmi con una pistola con un solo colpo.
Mi incollai dietro a due ottantenni secchi secchi di quelli che paiono fatti di legno e arrivai a casa per il percorso più breve.
Ma lo smacco era stato troppo grande.

Dire che in un anno io sia diventato un runner è spararla grossa. Non ho il fisico, non ho le distanze, non ho l'attrezzatura (il massimo che mi concedo decathlon da pochi euro), non ho il ritmo. 
 
Mi basta avere il tempo di partire ed arrivare, sapendo che non porto via spazio, non troppo almeno, a famiglia e lavoro.
Mi piace programmare, pianificare e poi disattendere
Mi piace creare aggregazione attorno alla corsa, essere in tanti, approfittarne per fare due chiacchere: non rinuncio all'idea che tutto abbia un ruolo sociale, perfino una sgambata in compagnia. 
 
Soprattutto mi piace l'alba, il freschetto del mattino, le gambe che si smollano man mano che percorro i chilometri, man mano che sorge il sole. 

  
Mi piace però anche il buio, il silenzio, l'immaginare le famiglie, dentro a quei muri che si preparano per la cena o stanno andando a dormire. 


 
Mi piace cambiare strada, cambiare terreno, mi piace che cambino le stagioni. 

 
Mi piacela salita, che mi ricorda che devo perdere peso, che l'allenamento che ho non basta, che l'ultimo metro è sempre il più duro; assomiglia un po' alla vita, dove neppure la discesa è semplice e devi stare molto attento a non scivolare o a mettere male i piedi.
Poi schiena dritta, gambe leggere, bacino a piombo e occhi sul traguardo, fino a quella curva lassù, stavolta voglio arrivare fino alla curva lassù 

Ho fatto casino con le date delle foto... vabbè fotoscioppo peggio di come corro
 

giovedì 2 gennaio 2014

Dora


Dora l'hanno seppellita la vigilia di Natale.
Aveva ottanta anni e una di quelle storie che fior di romanzieri farebbero a gara per accaparrarsela. Una di quelle vite che, a trovarsela scritta in un libro potrebbe darvi l'idea di essere stata inventata o di aver sbagliato l'epoca di ambientazione, spostandola almeno di un centinaio di anni in avanti.
Era cimbra Dora, con uno di quei cognomi tedeschi che il tempo ha reso italiano in modo un po' zoppo. Era bionda e con gli occhi di un azzurro impossibile da sostenere. Di Posina, un paesetto di montagna dimenticato da Dio e ricordato dagli uomini solo di domenica, quando vi salgono per mangiare gli gnocchi in una nota trattoria.
Ma ottanta anni fa non c'erano gnocchi e trattorie, c'erano solo la miseria che portava a valle gli uomini più forti, in cerca di fortuna. E se la valle non bastava si imbarcavano a Venezia e andavano lontano.

Fu così che a vent'anni Dora partì per l'Australia per sposare il fidanzato, partito tanto tempo prima, quando lei era ancora una ragazzina.
Un matrimonio semplice, in una di quelle chiese di legno costruite in mezzo ad un campo, condiviso con altre quattro o cinque coppie per ridurre il costo della cerimonia e del ricevimento.
Intanto lui fa il bracciante, lei la lavapiatti in un ristorante italiano.
L'anno dopo nasce Lucy May, l'unica figlia.
Forse non c'è arrivata subito a capire che la figlia fa più fatica degli altri ad imparare. Forse non l'ha capito mai.
Passano vent'anni, l'inglese è troppo ostico, non entra. E comunque quella brulla prateria non può diventare una casa per loro, cresciuti in mezzo alle montagne; tornano in Italia, due soldi e giovinezza ormai finita.
La figlia si innamora e si sposa. Lui è il matto del paese: bello, folle e ritardato. Dura niente, il tempo di mettere al mondo un figlio, ancora più sfortunato, pazzo e ritardato di loro.
Lucy May torna a casa, con questa nuova anima da accudire senza la capacità di farlo.
Ci pensa Dora, a modo suo.
La sua casa diventa il castello dove protegge i frutti del suo sangue dal mondo che non li vuole. Lo fa in modo duro, cattivo, arrabbiata con Dio e con la sorte, lasciando fuori anche chi vorrebbe aiutarla.
Tutto intorno nascono case, banche, computer. Loro in casa hanno una radio a transistor ed una vecchia stufa a legna dove si cuoce il brodo la domenica e poi lo si allunga fino al sabato successivo. Alla sera a letto alle otto al mattino sveglia alle cinque, anche se non ci sono più le bestie da governare.
Varcare quella soglia è un viaggio nel tempo.
I teppistelli del paese salgono la stradina che porta a casa sua per vederla uscire di tanto in tanto, per lanciare i sassi alla stria*
Quando me lo raccontava non piangeva, Dora, solo le se accorciava il fiato.
Come quella notte in ospedale, in attesa di sapere la sorte del nipote in coma: niente lacrime, solo sospiri.
Sospiri e la storia della sua vita che oggi io cercato indegnamente di raccontare perché di tanta sofferenza deve rimanere qualche traccia.
È morta nel sonno, Dora, ed è stata seppellita la Vigilia di Natale. 

*strega