lunedì 30 aprile 2012

The Avus Trilogy - Nonnix Reloaded


Dopo gli excursus nel passato (o sul passato? Mah!) Parliamo di nonni del presente.
La ciurmaglia è fortunata da queste parti: come me ha la possibilità di conoscere tutti e 4 i nonni. 
Ancora meglio di me: li ha conosciuti tutti giovani, se consideriamo che quando io sono nato i nonni paterni erano già sopra i settanta (e settant'anni nel 1974 era un'età diversa da oggi) e quelli materni poco ci mancava.
Poi, se vedi le foto, sembravano ancora più vecchi, mai al passo con i tempi.
Oggi mio padre gira con l'iPad; sua madre non ha mai imparato ad usare la Telefunken a colori e, per un certo periodo, la guardava con gli occhiali da sole perchè, diceva, tutti quei colori nuocevano alla vista. 

I nonni sono presenti, in salute, forti. 
Fanno parte dell'ultima generazione che è riuscita a dare ai figli più di quanto avessero avuto loro. L'ultima generazione che poteva permettersi un solo stipendio per vivere, per farsi la casa, per mantenere la macchina. 
L'ultima generazione che gli bastava una macchina.
L'ultima generazione che si è presa quello che ha voluto, che si è fatta il culo e, nonostante tutto, si accontentava di poco.
L'ultima generazione che all'uomo non servivano capacità relazionali, gli bastava non essere un alcolizzato e lavorare tanto. E la donna a portare tanta pazienza, mandare giù bocconi amari e “che la piasa, che la tasa e che la staga casa”

Ricordo i turbamenti di mia mamma quando, da ragazzo, mi mandava a fare la spesa, mi metteva a lavare i piatti, a passare lo straccio: “Impara l'arte, che le sposette moderne non sono più capaci di fare queste cose”. Credo temesse che, una volta che un'anima pia mia avesse preso con se, sconfortata dalla mia inettitudine, mi avesse ricacciato a casa.

Cosa possiamo raccontare noi a quella generazione?
Noi precari nel lavoro, nella casa, nelle relazioni. Noi cresciuti nella bambagia di famiglia che iniziavano a star bene, di scarpe cambiate ogni volta che serviva e non incerottate o riparate con i chiodi.
Come possiamo biasimarli, se ancora oggi, a quasi quarant'anni, hanno l'istinto di proteggerci?
Abbiamo il diritto di prendercela se non ci lasciano fare le nostre scelte, gestire i rapporti come crediamo meglio?
Ce la sentiamo di offenderci se fanno ancora di tutto per renderci la vita meno dura di quello che è stata la loro?
Possiamo prendercela con loro se non ci lasciano sbagliare?
La mia risposta è Si.
Dobbiamo.
Dobbiamo fare come loro: emanciparci.
Anche se loro la rivoluzione l'hanno fatta a vent'anni e noi a quaranta. E se non siamo pronti a quaranta la faremo a cinquanta. 
Dobbiamo tagliarlo noi quel cordone ombelicale. 

Dobbiamo fargli capire che non siamo degli sprovveduti, che la vita, in qualche modo, non ci ha riservato solo piaceri e nonostante tutto ce la possiamo fare. 

Passa inevitabilmente tutto da qui. 

Ed il bello è che è quasi impossibile. 

Anche se paghi una fortuna di nido e babysitter, anche se hai un mutuo che invecchierà con te, anche se prima di mezzanotte non hai finito di star dietro a tutto quello che c'è da fare. 
Avrai sempre bisogno di loro. Un'ora al giorno, magari ma bisogno. E loro non lo fanno apposta (almeno spero) ma su quell'ora investono tutta la loro necessità di essere adeguati come genitori e come nonni con il rischio di squalificarci come figli. E via, in una spirale di relazioni potenzialmente esplosive. 

Ecco! Il compito di non farle esplodere è tutto nostro. È il terreno su cui vinceremo sempre noi perchè abbiamo le lenti giuste per capire il mondo.
È la nostra prova di intelligenza. 

giovedì 26 aprile 2012

(tra parentesi)

Con un misto di orgoglio, pudore, vergogna, chennesò
vi comunico che oggi sono ospite su

GenitoriCrescono

Ma dove andremo a finire, se iniziano ad intervistare persino le persone come me?

ciao ciao

p.s. per chi attendesse la fine della Trilogia (e si vergogna, giustamente, a dirlo) mi sa che sarà per la settimana prossima... oggi e domani li dedico a firmare autografi ;)

lunedì 23 aprile 2012

The Avus Trilogy - Il nonno colpisce ancora


Credo che non ci siano state all'interno dell'intero albero genealogico della mia famiglia, due persone più diverse tra di loro dei miei nonni maschi. 

Gerardo era il padre di mia mamma; era un signore distinto, metteva una certa soggezione. Parlava poco e, in generale, non dava molta confidenza, nemmeno a figli e nipoti. Credo che in paese pensassero a lui come ad un aristocratico, un po' fuori dalle dinamiche e dalle chiacchere del paese. In realtà era una persona molto intelligente, interessata di un sacco di cose . Come molte persone della sua generazione si era fatto il culo dal primo all'ultimo giorno utile per lavorare. Da giovane suonava la chitarra ed il mandolino ma per carattere non credo si sia mai trovato ad essere colui che animava le feste. Forse, se la genetica non è un'opinione, in quella sua passione giovanile, c'è l'origine del mio amore per le corde e, allo stesso modo, quello di tutta la mia famiglia (cugini materni compresi) 
Di lui porto due ricordi indelebili: il ritorno da Budapest, uno dei viaggi di piacere fatti già da anziano, con un block notes fitto di appunti che mi ha letto quasi integralmente; credo di non averlo mai sentito parlare tanto. 
Poi una festa sull'aia con gli attrezzi di una volta: la trebbia, la legatrice, la motrice. Ci spiegava il funzionamento, per anni aveva offerto ai contadini della zona il suo servizio di trebbiatore; una delle poche volte che l'ho visto commosso. Aveva perso 4 figli piccoli Nonogerardo, non piangeva per le cazzate. 

Completamente diverso Nonobepi. In realtà si chiavava Silvio ma, chissà perchè, era per tutti Bepi. Era nato nel secolo scorso, Bepi. No, anzi, quello prima ancora. Era piccolino, tozzo. Man mano che passano gli anni mi rendo conto che finirò per somigliargli sempre di più. 
Aveva fatto la prima guerra, era stato in prigionia in Germania. Poi era emigrato in Francia, in cerca di lavoro. Era stato bracciante sulla ferrovia, in miniera, credo anche. Non ne parlava mai. 
Non viveva di ricordi Nonobepi. 
 Finchè le gambe lo hanno sostenuto non ha mai rinunciato all'osteria, agli amici. Poi sono iniziati gli acciacchi, la paralisi, la sedia a rotelle. Giuro di non averlo mai sentito produrre un lamento. Mi ricordo l'inno di Madrid '82, seduto vicino a lui, la prima volta che ascoltavo Mameli. Mi ricordo tutte le bici che mi ha regalato, man mano che crescevo, le sigarette ed i fazzoletti che gli portavo là, nel suo posto accanto alla finestra. Quando sono nato pesavo 2 chili scarsi. “Ghin faremo on omo?” Chiedeva a mia mamma. Spero di si, nono, se un giorno ci rivedremo avrò una cicca pronta per te.

Quand' io l' ho conosciuto o inizio a ricordarlo era già vecchio,
sprezzante come i giovani, gli scivolavo accanto senza afferrarlo
e non capivo che quell' uomo era il mio volto, era il mio specchio
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo. (F.Guccini - Amerigo)

giovedì 19 aprile 2012

The Avus Trilogy - Uomini che amano le nonne

Avevo in mente un post sui nonni. Poi mi è arrivato il suggerimento di parlare di mia nonna ed ho pensato ad una trilogia. Avendo idee per due pezzi ma dovendo farne tre, uno farà cagare. D'altro canto ogni trilogia che si rispetti ha un capitolo minore.
A parte la prima "Star Wars", forse.
Lucas, per rimediare, ne ha fatta una seconda con ben due cagate ristabilendo così l'equilibrio nella forza.
Ma torniamo a noi... Oggi parlo delle mie nonne: Rosa e Pasqua. I nomi sono veri. Entrambe non ci sono più, non qui, almeno.

Nonapasqua (che per noi era una parola sola) è ancora oggi la persona più discreta che abbia mai conosciuto. Quando andavo a trovarla non serviva togliersi la giacca: non ci avrebbe mai chiesto di fermarci a pranzo. L'unica volta che è passata da noi, portata da zia, è stata tutto il tempo in piedi, sulla porta. Non voleva disturbare.
Aveva perso quattro figli La Pasqua. Le malelingue dicevano che li faceva nascere deboli e morivano piccoli. Il quarto a quattro anni ha bevuto per errore il veleno per i topi. L'ho capito da grande che il suo non volerci tenere a casa sua era paura; paura che ci capitasse qualcosa di brutto, che ci fossero altri fantasmi a turbare le sue notti.
Poi la rivincita con la sorte. Due gravidanze buone e un'ultima, la settima, gemellare. Mamma era piccolina ed era dicembre. Non ce la farà, dicevano le comari del paesino. Invece la Pasqua l'ha messa in una scatola da scarpe foderata di ovata e mi piace pensarla curva a sussurrare alla piccola: "Facciamogli vedere noi".
Se oggi leggete queste righe è anche merito suo.
Ha fatto un ictus ed è sopravvissuta un bel po'. È morta un mese prima del matrimonio di mio fratello, preoccupata, credo, di disturbare la festa dei suoi cari nipoti.
Nonarosa (che per noi era una parola sola) era alta, severa. Non ricordo di averla mai vista ridere. Penso che da giovane fosse stata molto bella, metà per l'altezza (come da saggezza popolare), metà per quegli occhi azzurri che hanno lasciato una traccia in ogni famiglia che da lei è discesa. (un esempio)
Era decisa, forte, ferma. Viveva con noi, mi ha praticamente cresciuto lei. Il menù era fisso: lunedì pasta, martedì zuppa di verdura e così via. L'acqua si metteva a bollire quando tramontava il sole. La pasta scuoceva almeno mezz'ora; "nona, ghe xè scrito sete minuti" "Ah! No i capisse gnente, quei lì"
Poi sono cresciuto e mi ha colpito come questa durezza fosse una maschera per difendersi dal mondo che girava sempre più veloce, da non starci dietro.
"No i te porta mia so 'a bruta strada, al liceo, vero?"
"No sta preocceparte nona".
E allora, impercettibilmente, sorrideva.

lunedì 16 aprile 2012

Se lavora e se fadiga...


Da questo elegante detto (probabilmente non solo veneto) prendo spunto per il post di oggi.
Negli ultimi tempi si rifletteva molto con Silver su quanto sia necessario impegnarsi per tenere vivo un rapporto di coppia. Qualcuno potrà dire: ammazza, che lievi pensieri vi concedete alla sera...
Si partiva da alcuni amici che, purtroppo, si stanno separando. Alcuni dopo pochi anni dal matrimonio, altri dopo tanto.

Poi sabato abbiamo mangiato una pizza con i madeghi* che madeghi non lo sono più. Sono dei cari amici che conosciamo ormai da dieci anni; abbiamo condiviso con loro molti momenti belli e altri, purtroppo, meno belli. Tanti viaggi, poi. Ora vedersi è più difficile, la nostra compagnia è, effettivamente meno allettante di un tempo (soprattutto la nostra capacità propositiva) ma non rinunciamo a qualche cenetta ogni tanto. Sono venuti con le fidanzate, carine, loro. E si parlava di questo, di quanto non si possa mai darsi per scontati e di quanto non esistano comunque regole che possano valere per tutti.
E allora la prima coppia che non si vede quasi mai, per motivi logistici, lei lavora lontano, e spesso stanno separati anche per lungo tempo. La seconda più “tradizionale” con lei che reclama attenzione e “pretende” un minimo di presenza.
Ed il bello è che hanno ragione tutti: non c'è una regola.
Ognuno deve trovare il proprio modo per vivere in coppia e, in ogni caso, poi lo deve sostenere, alimentare. Puoi decidere che sei a tuo agio in una relazione a distanza ma non la devi dare per scontata e, soprattutto, devi saper essere tempestivo nel riavvicinamento, se serve. Puoi credere che sia meglio la vita a stretto contatto, il rapporto esclusivo. Però non ti devi lamentare dopo, se ti manca l'aria. Non ho consigli da vendere e nemmeno da regalare.
So che sono quasi quattordici anni che sono insieme alla stessa persona e mi stupisco sempre di quanto riesca a sorprendermi ancora con la sua forza e la sua intelligenza.
Ed io, ancora oggi, mi sento come il fidanzatino che, giorno dopo giorno, la deve conquistare**. 

* madeghi: la madega è la prima erba della stagione primaverile. In veneto è sinonimo di single (in particolare di qualcuno che non ha mai avuto un fidanzato/a). Zittella, in poche parole. 

** e a qualcuno sembrerà poco "normale" anche questo... ma io sono così.

venerdì 13 aprile 2012

Il deserto del tartaro

Ieri sera, complice Silver che era via per lavoro, mi sono passato un paio d'ore sul divano a scribacchiare in giro per Spinoza, a pensare a come sviluppare un paio di idee per il blog, eccetera.
Non che non si possa fare quando Silver c'è, per carità. Solo che ieri dovevo trovarmi a suonare con un po' di parentado di vario ordine e grado per la festa danzante del prossimo matrimonio di mia cugina (dets de uei ah ah alaikit ah ah dets de uei u uu uuuu u uuuu). Ma non potevo, perchè a guardia dell'inviolabile confine (quello tra il sonno e la veglia dei pargoli).

Ma sto divagando.

Non sono riuscito a produrre granchè, purtroppo.  Il colpevole è un mal di denti atroce che mi accompagna da un paio di giorni. Parte dal premolare e sale fino alla tempia. Poi giù, fino alla mandibola (o mascella, non le distinguo) vicino all'orecchio.
Ho provato di tutto, manca solo la morfina, e non funziona nulla.
Così tra mezz'ora sarò sdraiato su una poltrona di dentista con questo simpaticone tutto sorrisi che mi caccia le mani in bocca e mi tortura. Alla modica cifra, poi. 
La medicina odontoiatrica è la sublimazione di una pulsione masochista: far soffrire a pagamento. A pensarci, il fatto che sorrida non è del tutto fuori luogo.
Credo sia a causa di un intervento abbastanza consistente ai molari che va avanti da qualche stipendio mese. Ho cambiato modo di masticare e ho tutta la bocca in subbuglio; un po' come quelle vecchie 127 che, appena le guida qualcuno che non sia il proprietario con il cappello, si ingolfano.

Guardiamo il lato positivo: senza Silver ieri sera rischiavo di avventarmi famelicamente sugli avanzi delle uova di Pasqua, sulla Lemonsoda che è in frigo da qualche giorno, su quel meraviglioso parmigiano stravecchio. Niente. Troppo male.
Oggi a pranzo giusto un pochina di insalata e un po' di carne tra indicibile sofferenze.
Invece il dolore diventa terapia d'urto per la dieta. In due giorni si smaltiscono le gozzoviglie dello scorso WeekEnd. (a proposito, sto perdendo peso ma, in effetti, quel 94 scritto qui a fianco era proprio una menzogna grossa). Ora, tagliando barba e capelli potrei anche perdere qualche ulteriore etto (che tra un po' somiglio a Bakunin)
Conto di essere in forma per la prova bikini o, almeno, di entrare nell'unico vestito elegante a disposizione il giorno del matrimonio di mia cugina. Il conto del dentista non permetterà nuovi acquisti, temo.
È un post un po' del kaizen, mi rendo conto. Ma scrivere mi aiuta a non pensare al mal di denti.
E poi volevo augurarvi buon week end.



mercoledì 11 aprile 2012

Operazione Morpheus


S'è presa una piega non bella in zona notte.
Si tenderebbe a svegliarsi troppo. E dico troppo parametrandolo al mio grado di sopportazione che probabilmente non è altissimo ma, diciamoci la verità, è anche un lontano ricordo, ormai.
La nostra esperienza di “addormentatori” era iniziata con Maria ormai tre anni fa. L'addormentavo sempre in braccio, convinto che si facesse così. Poi un giorno, che la piccola avrà avuto sei mesi, un collega, con figlioletta coetanea di Marichan, mi dice che non va bene e che loro sono passati al metodo “Facciamo la nanna”. Stop
La sera Silver usciva per un addio al nubilato di nonmiricordochi.
Io, che se me la mettono sulla competizione so essere cane, ma cane davvero, mi autoconvinco che Maria è così brava che basta metterla giù. Funzionò.
Verso le nove e mezza mandai un SMS a Silver che recitava: “Estevil baciami il culo. Divertiti amore”.
Poi sono arrivati Pee e Moe.
L'anno scorso avevo detto di Pee, della sua difficoltà a prendere sonno. La cosa si era risolta abbastanza facilmente. Per lunghi mesi le cose sono andate bene. Ci siamo fatti anche quattro o cinque notti di fila senza svegliarci. Eh, si. Si arriva ad apprezzare queste piccole cose.
Poi il trasloco e il collasso del sistema.
Dapprima ci siamo fatti trascinare nel vortice dell'addormentamento in braccio perchè la nonna si offriva di addormentarli lei e la nonna fa così: li scuote due secondi e magicamente dormono. Ci siamo un po' adagiati, assetati di aiuto e comprensione com'eravamo qualche mese fa.
Poi, inspiegabilmente, hanno ricominciato a svegliarsi di notte. Tutti e tre, tutte le notti. La promiscuità della camera provvisoria non aiuta: alzano gli occhi e vogliono venire nel lettone. Così la storia si ripete punatuale come la morte: si sveglia Moe, lo mettiamo in mezzo, si addormenta, si sveglia Marichan, spostiamo Moe nel lettino, mettiamo Marichan in mezzo, si addormenta, si sveglia Pee, lo mettiamo accanto a Marichan, si addormenta, si risveglia Moe, sono quasi le sei, lo mettiamo in mezzo pure lui tanto manca mezz'ora poco più (mancare poco per noi significa che dalle 5 del mattino ci rifiutiamo di alzarci dal letto).
Non bisognerebbe farli dormire in mezzo. Ma riaddormentarli nel loro lettino significa stare su anche mezz'ora nel cuore della notte. Non sempre con successo. Moltiplicate per tre. Ok.
Così ci si fa l'ultimo sonno su dieci centimetri di letto, col culo fuori al freddo, con Moe che ti carezza il viso (lo fa da addormentato, è pazzesco), in posizioni scomodissime, con la sveglia che suona e non hai nemmeno lo spazio di girarti per spegnerla.
Risultato contrattura permanente alla spalla destra, rigidità alla base del collo, occhiaie da panda, sonno cronico.
Ma non ci siamo arresi. Siamo ripartiti dall'inizio: li addormentiamo a letto, nel loro letto.
La prima settiamana è andata bene. Poi siamo passati all'addormentamento simultaneo: tutti al loro posto e ninna nanna collettiva. Dopo due sere di rodaggio il meccanismo ha iniziato a girare. Speriamo che piano piano ritorni anche la notte intera.
L'abbiamo messa sul competitivo. È una gara contro la nostra poca forza di volontà. E quando la mettono sul competitivo divento cane, ma cane. E Silver anche di più. Ce la faremo! Ah, se ce la faremo!

giovedì 5 aprile 2012

I see your true colors (RAL part 2)


Torno a parlare di casa. Di colori, meglio. Lo faccio poco se lo paragono a quanto mi costa in termini di tempo e di soldi... pensandoci, forse è per questo che ne parlo poco :(
Qualsiasi cosa decidiate di fare in futuro per la vostra casa, sia esso comprare mobili, dipingere pareti, piastrellare il vialetto: dimenticatevi il blu, il rosso ed il giallo.
L'avranno insegnato anche a voi che questi sono i colori primari? Che mescolandoli tra loro si ottengono il verde, l'arancio ed il viola? E così via...

Ora: chi mi sa dire di che colori è composto l'Ekrù? No, non è un animale della savana, credo che quello sia lo zebù.
Ed il tortora? Solo a casa mia le tortore non sono a tinta unita? Quale delle sfumature devo considerare?
Il tanganika a parte il nome esotico, cosa mi comporta?
E non vi fa un po' senso tenervi un mobile scupira in camera?
Non è proprio una moda, a pensarci bene. Già qualche anno fa c'era l'antracite. C'era questo elettricista sempre un po' brillo e sempre con le braghe leggermente basse ad evidenziare il “portabici” (diffidate di idraulici ed elettricisti che abbiano il buco del culo nascosto, non è professionale), che diceva di voler mettere le placche in antracite. Wow! Fico, pensavo nella mia ingenuità di bimbo. Poi ho scoperto che l'antracite è uguale al canna di fucile.

Ora si fa riferimento alla vita di tutti i giorni, in teoria dovrebbe essere più facile: c'è il melanzana, (che si fa un baffo del fatto che le melanzane sono di vario tipo), il burro, il panna (occhio ai grassi, però), il corda (ecco, fanne buon uso), l'avorio, il tabacco (la scritta “nuoce alla salute” la lascio o posso levarla?), il moka (anche in versione dec), il salmone, il trota (Renzo, vattene) ed il trotasalmonata.
Poi si torna in luoghi esotici: il Wengè, il decapè, il dov'è, cosghè e cosafè?
Senza entrare nel merito delle varie lavorazioni: spazzolato, levigato, lucidato, laminato, glassato, anticato, trattato. Che poi lo puoi trattare in mille modi: con l'acqua, con l'olio, co'ioni, con le microparticelle, con le macrocazzate, eccetera.
Non se ne esce, vi giuro.
Vi lascio con una battuta che mi era venuta anni fa e non sapevo mai come usarla, a parte su di me:
I tuoi occhi sono come l'acqua del mare” - “Azzurri?” - “No, sporchi”

p.s. 100 Followers. Wow! 

Buona Pasqua a tutti 

martedì 3 aprile 2012

In queste scarpe


Oggi sono in vena di post assurdi. Se non avete voglia di seghe mentali, di metafore idiote e altre amenità evitate di proseguire.

Sabato e Domenica siamo stati per scarpe. Tra un mese e mezzo si sposa mia sorella. I futuri sposi si son fatti tutto un programma sui pargoli che non so se sarà avverabile.
Ad esempio gli anelli devono portarli all'altare Marichan e la Nene (la figlia di mio fratello). Le due si adorano, ma la prima mezz'ora assieme è sempre di fuoco. Dovremo mandarle in ritiro la sera prima per farle affiatare, come il Grande Vicenza di Guidolin.
Lo sposo, invece, voleva vestire i gemelli in frack e cilindro e farsi accompagnare all'altare dai paggetti. Tsk Tsk. Io me li vedo le due iene che man mano che percorrono la navata staccano tutti i fiori dai banchi, buttandoli dentro al cilindro,  ridendo e dicendo “Cac-ca!!!”
Abbiamo optato per delle meno impegnative giacchette blu e pantaloni bianchi. 

Ma scarpe dicevo. Abbiamo preso delle scarpette da Yachtclub che lèvate! Solo che in un mese e mezzo restiamo senza. Così ieri abbiamo preso d'assalto il centro commerciale per trovare due paia di scarpe da tennis smalfare che si facciano carico dell'impatto della ghiaia, dell'erba e del cantiere della casa per questo inizio primavera.
Poi in una vetrina abbiamo visto due cappelli panama. Evvai, se cappello doveva essere, che cappello sia. Oltrettutto il panama fa pendant con la divisa del quintetto di ottoni dove suona mia sorella. Sarà un successo. Oppure svilupperanno delle turbe psichiche a causa dei genitori che li vestono da pagliacci. Una delle due.
Va ben. Ma torniamo alle scarpe.
Io non sono feticista, mai stato. Mi piace però ricordare qualche scarpa che ho visto e/o indossato. Ricordo le scarpe ortopediche, comprate al Peter Pan in contrà Muscheria: dure, ma dure. Mi ricordo le Tiger (che poi sonodiventate Asics) indossate dai gemelli P. , all'asilo. Uno le aveva con le strisce gialle, l'altro arancioni. Era l'unico particolare che li distingueva. E poi non mi ricordavo mai chi dei due avesse le gialle e chi le arancioni, ed era un casino uguale. Mi ricordo le Soldini che ho comprato in prima media. Imitazione delle Nike ma con personalità; le portavo con fierezza, alla faccia dei compagni pieni di soldi (ho fatto le medie in centro, veh!). Le Puma, comprate con un buono “meritato” a scuola come studente impegnato e disciplinato (cheppalle). Le Andreas da calcio, a km 0, prodotte nel paese vicino: c'ho fatto qualche gol, quando giocavo con i giovanissimi nonostante non le avessi mai lavate (avevo dei piedi di granito, il fango, per quanto secco, li ammorbidiva).
Le prime Lamberjack, che all'inizio erano solo delle imitazioni delle Timberland, poi sono diventate di marca ma, nel frattempo, le mie erano finite.
E poi gli anfibioni grigi, delle superiori e i primi anni dell'università: suonavo con il gruppetto ed ero sempre vestito di scuro (poi basta, si vedeva troppo la forfora).
Le simil Converse tutte strappate che c'ho quasi rimorchiato quella compagna di università carina, ma tanto carina, all'esame di Fondamenti.
Le Adidas che c'ho pedalato dentro fino a Santiago e, l'anno dopo, fino a Roma.
Le scarpe da Sposo, che ci faccio le vesciche ancora ora, se le rimetto.
Quelle con le nappine che una volta sono andato a suonare rock e facevo un po' ridere.
Le polacchine eque e solidali, che porto ancora ora e che sono bellissime anche da sgualcite.
Ed ogni scarpa ha la sua storia, e buttarle fa sempre un po' male. Non siamo gente che vive di ricordi, ma quanti ricordi (è una frase che uso spesso, lo so)